Serbia e UE, il momento della verità

di Benjamin Couteau, Institut Jacques Delors (traduzione East Journal)

Da un anno, la Serbia vive al ritmo di un movimento di protesta senza precedenti. Per la prima volta dopo oltre un decennio di regime autoritario, il regime di Aleksandar Vučić sembra vacillare. Il crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, il 1° novembre 2024, che ha causato sedici vittime, ha scatenato una mobilitazione studentesca, alimentata dai sospetti di corruzione legati alla ristrutturazione della stazione. Diffondendosi gradualmente in tutto il paese, questa rivolta sta ora scuotendo le fondamenta di un regime un tempo ritenuto incrollabile.

Da allora, centinaia di migliaia di cittadini in tutto il paese sono scesi in piazza senza sosta, chiedendo la fine di un sistema basato sulla corruzione, sul clientelismo e sulla propaganda. Anche se i manifestanti non sventolano la bandiera dell’UE, le loro richieste riecheggiano esattamente i valori che Bruxelles rivendica come propri principi fondanti. Sebbene spesso critici nei confronti dell’Unione Europea – di cui la Serbia è candidata dal 2012 – alcuni hanno pedalato fino a Strasburgo, altri sono corsi a Bruxelles, cercando di far sentire la propria voce. La loro lotta, come sottolineato dalla Commissaria all’allargamento Marta Kos, è profondamente europea: una lotta per la giustizia, la democrazia e lo stato di diritto.

Eppure, a un anno dall’inizio delle proteste, i serbi non si sono mai sentiti meno in grado di contare sui loro partner europei, misurando il divario tra i valori proclamati dall’Unione Europea e la sua compiacenza nei confronti di un regime che li calpesta. Oggi, la Serbia sta vivendo una vera e propria cattura dello Stato e dei media: le istituzioni sono sottomesse, la stampa libera messa a tacere e la magistratura sotto controllo.

Mentre le autorità serbe rafforzano la loro presa e diventano sempre più violente contro la propria popolazione, le capitali europee rimangono sconcertantemente passive. In nome di una stabilità regionale divenuta illusoria, chiudono un occhio su una deriva che giorno dopo giorno mina l’adesione che Aleksandar Vučić finge ancora di perseguire – e, con essa, la credibilità del processo di allargamento. Si tratta di un grave errore strategico: in questo momento storico, una simile posizione equivale a legare la propria immagine al destino di un regime ormai senza fiato.

L’Unione Europea, Francia inclusa, si trova ora di fronte a una scelta: continuare a tollerare un regime che mina i propri interessi o schierarsi al fianco delle aspirazioni democratiche del popolo serbo. Ora più che mai, deve esercitare una pressione credibile sulle autorità serbe affinché rispondano seriamente alle richieste del popolo – indire elezioni anticipate, libere ed eque e intraprendere autentiche riforme istituzionali. In caso contrario, il processo di adesione dovrebbe essere sospeso, seguendo i precedenti stabiliti con Turchia e Georgia. La posta in gioco oggi in Serbia si estende ben oltre i suoi confini: è la credibilità stessa del progetto europeo.

Anatomia di un regime in difficoltà

Il movimento nato a Novi Sad non è un’esplosione improvvisa; è il culmine di dieci anni di frustrazione accumulata. Precedenti mobilitazioni avevano già messo in discussione chi era al potere – opponendosi al progetto del Belgrade Waterfront, alla miniera di litio nella valle di Jadar, all’ondata di violenza pubblica o ai ripetuti brogli elettorali – ma nessuna era mai riuscita a unire il Paese come questa. Questa protesta, la più grande nella storia recente del Paese, trae la sua forza dalla sua stessa natura: pacifica, apartitica e decentralizzata. Nata nelle università, si è diffusa in ogni città e villaggio, tessendo una solidarietà nazionale che le autorità non avevano previsto.

Di fronte alla portata del movimento, il governo ha tentato di fingere trasparenza pubblicando, a dicembre, alcuni documenti relativi alla ristrutturazione della stazione ferroviaria di Novi Sad, fingendo così di rispondere alle richieste degli studenti. Questa messa in scena non ha fatto altro che rivelare il suo imbarazzo e la sua impotenza di fronte a una rivolta incontrollabile. I suoi consueti metodi di discredito – accusare i manifestanti di essere manipolati dalle potenze occidentali o di agire come agenti di una “rivoluzione colorata”, nella terminologia del Cremlino – non funzionano più.

Di fronte a una popolazione che non riesce più a controllare, Aleksandar Vučić è precipitato in un’escalation denunciata dal Parlamento europeo: molestie e repressione mirata di manifestanti, giornalisti e oppositori; arresti e detenzioni arbitrarie – tra cui membri del partito di opposizione Movimento dei Cittadini Liberi (Pokret slobodnih građana, PSG) – e diffusa sorveglianza illegale, in parte attraverso l’uso di spyware.

Questa crescente tensione tradisce il timore di un regime consapevole che rispondere sinceramente alle richieste popolari – trasparenza negli appalti pubblici, indipendenza della magistratura e lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata – significherebbe mettere a dura prova l’intero edificio. Aleksandar Vučić respinge allo stesso modo la prospettiva di elezioni parlamentari anticipate, sapendo che le perderebbe nel clima attuale. In un numero crescente di città, la sua impopolarità lo rende ora persona non grata. Incapace di ripristinare la sua legittimità, ha preferito la repressione alle riforme.

La trappola dell’ambiguità

L’irrigidimento interno del regime è accompagnato da una corsa sfrenata in politica estera. L’uomo che un tempo si vantava di essere un abile funambolo, capace di destreggiarsi tra Bruxelles, Mosca, Pechino e Washington D.C., ora moltiplica le provocazioni: insulti rivolti ai membri del Parlamento europeo, arresti ed espulsioni illegali di cittadini dell’UE o visite ufficiali a Mosca e Pechino. Unica tra gli Stati dei Balcani occidentali, la Serbia si rifiuta ancora di aderire alle sanzioni contro la Russia, amplificando invece la narrazione del Cremlino volta a screditare l’Unione Europea.

Moltiplicando i gesti verso Vladimir Putin, Aleksandar Vučić cerca di preservarne il sostegno, mentre Mosca aumenta la pressione energetica su Belgrado, fortemente dipendente dal suo fornitore russo e con il suo accordo sul gas destinato a scadere alla fine dell’anno. Questa dipendenza strutturale mette in dubbio l’affidabilità della Serbia come Stato candidato, indebolendo al contempo il regime stesso: una crisi energetica invernale – che si tratti di tagli alle forniture o di un’impennata dei prezzi – potrebbe infrangere l’illusione di stabilità che Aleksandar Vučić ha mantenuto finora. Rinchiudendosi in questo schema, mette a repentaglio non solo la sicurezza energetica del Paese, ma anche le sue prospettive europee.

Pronto a sacrificare l’appartenenza del suo Paese all’UE per la propria sopravvivenza politica, Aleksandar Vučić non può più essere considerato un interlocutore credibile: né sulle riforme necessarie per l’adesione, né sull’attuazione dell’accordo Bruxelles-Ohrid con il Kosovo, né sul perseguimento dei responsabili dell’attacco di Banjska. Di fronte a questa situazione di stallo, gli Stati membri dell’UE non possono più accontentarsi di una politica di pacificazione dettata da una manciata di contratti. Nessun tentativo di compromesso con Aleksandar Vučić ha prodotto finora alcun risultato duraturo; lui stesso è diventato una fonte di destabilizzazione regionale.

Alcune voci invocano ancora moderazione, invocando il rischio di una maggiore instabilità nel continente, il timore di “spingere la Serbia tra le braccia della Russia” o di mettere a repentaglio importanti opportunità economiche, dal litio ai contratti per la difesa. Eppure, tali argomentazioni oscurano una verità ovvia: la Serbia non può recidere i legami con l’UE, il suo principale partner commerciale – che rappresenta oltre il 58% del suo commercio totale – e la sua principale fonte di investimenti esteri. Deviare dal percorso di adesione all’UE spaventerebbe gli investitori stranieri e comprometterebbe il successo economico su cui Aleksandar Vučić ha costruito la sua legittimità, con il rischio di accelerare la propria caduta.

“Il giorno dopo”: sostenere il risveglio democratico

Di fronte a questa ondata di proteste senza precedenti, sorge inevitabilmente la domanda su cosa succederà dopo. Nonostante l’urgente richiesta di elezioni anticipate, non sembra emergere alcuna alternativa politica credibile. Il sistema stesso rimane bloccato: nessuna riforma elettorale ha ancora affrontato il problema della cattura dei media o le gravi irregolarità dell’ultimo scrutinio – compravendita di voti, manipolazione delle urne, pressione sui dipendenti pubblici o uso improprio di risorse pubbliche.

In questo panorama paralizzato, la “lista studentesca” rappresenta un tentativo senza precedenti di dare forma politica al movimento, pur preservandone il carattere apartitico. Destinata a rimanere segreta fino alla convocazione ufficiale delle elezioni, ha già chiuso le porte ai membri della società civile organizzata e alle personalità che hanno già ricoperto cariche politiche. Questo “cordone sanitario” mira a distinguersi da un’opposizione indebolita, divisa e screditata da un decennio di attacchi mediatici.

In un ambiente mediatico sotto chiave, qualsiasi lista di opposizione, compresa quella degli studenti, si scontrerà inevitabilmente con la macchina di propaganda del regime. Anche se vittoriosi, tali movimenti verrebbero immediatamente screditati. I principali organi di informazione, come le élite economiche del paese, dipendono direttamente dalla sopravvivenza del regime: il pluralismo politico rimane quindi, per ora, un’illusione.

Tuttavia, si percepisce un cambiamento di tono da parte dell’UE. La visita di Ursula von der Leyen a Belgrado il 15 ottobre ha segnato un cambiamento: pur riaffermando il ruolo centrale dell’Unione nel futuro della Serbia, la Presidente della Commissione Europea ha concesso al governo un mese di tempo per adottare due riforme ritenute essenziali: la revisione del registro elettorale unificato e il rinnovo trasparente del Consiglio dell’Autorità di regolamentazione dei media elettronici (REM). Il messaggio è inequivocabile: non ci sarà allargamento senza democrazia, né democrazia senza stato di diritto, a condizione che l’Unione eserciti una pressione credibile sui paesi candidati.

Pochi giorni dopo, al Parlamento europeo, Marta Kos – il primo membro della Commissione europea a pronunciarsi contro la deriva del regime serbo – ha ribadito questa fermezza: “La Serbia deve fare una scelta strategica forte e chiara“. Anticipando le pressioni di Bruxelles, Aleksandar Vučić ha ordinato al suo governo e al Parlamento di accelerare le riforme necessarie e ha promesso di convocare le elezioni entro un anno – pur denunciando quello che ha descritto come un umiliante ricatto – come per riprendere il controllo senza concedere nulla.

Spetta ora alla Commissione europea e agli Stati membri, in particolare a Francia e Germania, confermare il loro sostegno alle richieste democratiche del popolo serbo e valutare la possibilità di congelare il processo di adesione della Serbia in caso di uso sproporzionato della forza o di mancata attuazione delle riforme necessarie entro il mese assegnato.

Di fronte all’incoerenza del regime, l’Unione europea non può rimanere spettatrice: deve sostenere il popolo serbo nella sua ricerca della democrazia. Qualora emergesse un governo autenticamente democratico, l’Unione deve essere pronta ad assisterlo nell’attuazione delle riforme necessarie per l’adesione e nel ripristino del pluralismo dei media e dell’indipendenza della magistratura.

Questo documento incorpora i principali risultati di una missione conoscitiva condotta dal Centre Grande Europe dell’Istituto Jacques Delors a Belgrado nel settembre 2025.

Foto: Getty

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