Le proteste che da oltre tre mesi stanno scuotendo e risvegliando la Serbia dal torpore di un autoritarismo corrotto e sfacciato stanno avendo un successo inaspettato. La tragedia della stazione ferroviaria di Novi Sad, dove la caduta della tettoia ha ucciso 15 persone lo scorso 1° novembre, ha mobilitato studenti e non solo, facendo aderire alla protesta diverse fasce della popolazione serba, per anni imbonita dalle televisioni e dai tabloid di regime. Agli studenti universitari si sono gradualmente aggiunti insegnanti, avvocati, agricoltori e persino alcuni giornalisti della RTS, la tv di stato tradizionalmente filogovernativa. Le manifestazioni per commemorare le vittime sono diventate cortei, che hanno poi portato a uno sciopero generale, quindi a blocchi stradali. Da qualche settimana, gli studenti hanno deciso di marciare su varie città del paese, raccogliendo ovazioni, bagni di folla e l’accoglienza organizzata della gente del posto che fa trovare loro pasti caldi e servizi di prima necessità. A ben vedere, la Serbia del presidente Aleksandar Vucic sta cadendo a pezzi.
L’indignazione è dunque andata crescendo in termini di sentimenti e partecipazione e la protesta è diventata la più grande forma di disobbedienza civile che la Serbia abbia visto negli ultimi due decenni. O meglio, da quel 5 ottobre 2000 in cui venne rovesciato il regime di Slobodan Milosevic.
Ma come è possibile che in un regime autocratico una sollevazione civile possa avere successo? Perché la protesta ha sin qui avuto una matrice civile e non politica. E i partiti ne sono stati lasciati fuori, sia dagli obiettivi che dalle rivendicazioni. Nessuno dei partiti della galassia dell’opposizione serba guida la piazza. E mentre il partito progressista del presidente Aleksandar Vucic viene senz’altro ritenuto responsabile della deriva del paese, gli studenti ufficialmente non hanno richiesto le dimissioni di nessuno. Ecco perché quando lo scorso 28 gennaio il premier Milos Vucevic si è dimesso la protesta è continuata. Perché l’obiettivo della piazza non è mai stato governare, bensì sradicare il metodo di governo di questo regime. Un progetto molto più ambizioso ma che, ad oggi, sta mettendo fuori gioco il presidente Vucic, che per 13 anni ha esercitato un controllo assoluto su politica e società serbe.
Nel tentativo di riprendere il controllo della situazione, Vucic ha offerto la testa di alcuni politici e dirigenti pubblici responsabili di casi di corruzione, ma la protesta non si è placata. Le richieste della piazza sono infatti di natura civile: la pubblicazione della documentazione completa dei lavori di rinnovo della stazione di Novi Sad, ovvero la prima richiesta formalizzata dagli studenti, è molto più ardita e rivoluzionaria di quanto lo sia chiedere le dimissioni del premier. Se la richiesta venisse totalmente accolta, infatti, svelerebbe la piramide di corruttele dell’amministrazione, sovvertirebbe il modo di fare di un governo incurante dell’interesse pubblico, e sbugiarderebbe governanti che parlano di popolo e nazione. Pretendere prove nero su bianco da un governo abituato a fare tutto in modo opaco, senza alcuna trasparenza e attraverso eminenze grigie che spesso fanno da collante tra governo e criminalità organizzata, mette in scacco il regime. Che ora si sente con le spalle al muro e prova a fare ciò che ha sempre fatto: metterla sul piano politico.
Le dimissioni di Vucevic e del governo aprono infatti la possibilità di ennesime elezioni anticipate. Per anni Vucic ha usato questo stratagemma: indire voto parlamentare anzitempo e rafforzare la propria maggioranza con trionfi umilianti per l’opposizione, complici brogli e trenini bulgari. L’ha sempre fatto, anche quando nel 2023 le proteste nate in seguito alle sparatorie di Belgrado portarono alla più grande coalizione dell’opposizione. Sebbene il maxi-cartello di partiti prese la più alta percentuale della storia degli anti-Vucic, il regime capitalizzò i consensi e ne uscì di nuovo vincitore. Perché? Perché nel corso del 2023 la protesta da civica diventò politica. Le marce indignate per la tragedia nella scuola Ribnikar si erano infatti tradotte in un’eterogenea alleanza che portava lo stesso nome dei cortei di protesta: “La Serbia contro la violenza”. Oggi la Serbia si è alzata contro la violenza, contro la corruzione, contro l’ingiustizia, contro istituzioni catturate dai quadri di partito per interessi privati. Ecco perché gli studenti non si accontenteranno di elezioni ed esecutivi figli dello stesso sistema. Nel suo scopo finale, è anche una battaglia politica, ma i mezzi sono civili: investimenti nell’istruzione; un’informazione libera; appalti pubblici; pluralità e dialogo. Ovvero i mezzi che il regime ha eliminato o manipolato a proprio uso e consumo.
Allo stesso modo, non deve sorprendere che tra i manifestanti non compaiano bandiere europee. Questo non accade perché la piazza è antieuropea, euroscettica, filorussa, conservatrice, estremista o vattelappesca. La bandiera blu con stelle gialle rappresenta, in parte, la politica di Vucic, che è apparentemente europeista. Ma rappresenta anche l’acquiescenza occidentale che ha sostenuto il regime, in quel sistema chiamato anche “stabilitocrazia”, per cui ai leader europei interessa maggiormente un contesto politicamente ed istituzionalmente “stabile”, condizione favorevole soprattutto per attirare investimenti e far crescere gli scambi commerciali, anche a costo di sacrificare gli standard democratici del paese, dove infatti da 13 anni non c’è alcun ricambio politico. Il sostegno occidentale al governo Vucic potrebbe oggi essere motivato anche dalle riserve di litio della Serbia, il cui sfruttamento ha incontrato sia il favore della Commissione europea che l’intransigenza della popolazione, che dal 2021 si oppone al progetto. In altre parole, l’UE è più una sorta di complice del regime di Vucic. Lo dimostra anche il sostanziale silenzio di Bruxelles e delle cancellerie europee in oltre 100 giorni di agitazioni di piazza che, dal canto suo, chiede a gran voce il rispetto di uno degli standard democratici cari all’UE: lo stato di diritto.
Gli studenti sono fin qui stati molto coerenti e astuti a lasciare fuori la politica, quindi anche l’UE. Se avessero buttato nella mischia richieste politiche o di politica estera, come la questione del Kosovo, avrebbero fatto il gioco di Vucic. Se c’è una cosa che è in grado di dividere la società serba, questa è la politica nazionale – come ci ricorda il motto “solo la concordia salva il serbo” – e il dibattito pubblico sugli interessi nazionali, in primis il Kosovo, è stato per anni sapientemente assoggettato ai voleri esclusivi del governo, senza confronto alcuno e con lo slogan di sempre “Kosovo è Serbia”, affinché ne fosse l’unico decisore. Se oggi la piazza avesse obiettivi politici come la questione del Kosovo, Vucic tornerebbe a sorridere.
In un contesto del tutto illiberale, caratterizzato da un sostanziale buio mediatico e da una distanza abissale tra la capitale e il resto rurale del paese, se la piazza avesse richieste politiche, o relative all’interesse nazionale, porterebbe inevitabilmente a divisioni insanabili. E queste sarebbero l’ennesimo assist a porta vuota per il regime.
Il presidente Vucic ci ha già provato a dire che i manifestanti sono una minaccia per l’integrità nazionale e che sono foraggiati dall’estero per opporsi alla sovranità serba sul Kosovo. Per Vucic, quella in corso sarebbe infatti una “rivoluzione colorata” che vuole distruggere la Serbia, arrivando persino a sostenere che l’obiettivo finale è la secessione della Vojvodina. Dire che il dissenso è pagato in miliardi di dollari è un vecchio spauracchio caro a tutti i regimi illiberali, quelli abituati che il consenso si paga, si ottiene col ricatto e si propaganda su media nazionali controllati con fondi pubblici. Dal canto loro, gli studenti continuano sulla loro strada, che lo scorso fine settimana li ha portati a Kragujevac per la festa nazionale “Sretenje”, ovvero la ricorrenza della prima costituzione nazionale, quello strumento legale che la piazza oggi vuole difendere.
Il successo degli studenti serbi dipenderà quindi dalla loro capacità di mantenere fede alle richieste civiche e non politiche, continuando a raccogliere il genuino favore delle piazze su cui marciano da settimane. Niente logorerà Aleksandar Vucic come il vedere che in pochi lo amano realmente.
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