La scure delle sanzioni americane si è abbattuta definitivamente sulla Naftna Industrija Srbije (NIS), il principale fornitore di petrolio in Serbia. A nulla è valsa, infatti, la disperata richiesta di un’ulteriore deroga, recapitata al Ministero delle Finanze statunitense nei giorni scorsi. Non ci sarà alcuna deroga, dunque – sarebbe stata la settima da quando l’amministrazione Biden a inizio anno promulgò il provvedimento – le sanzioni sono ora attive, dalle sei del mattino del 9 ottobre scorso.
Una società energetica ancora in mano ai russi
Non si poteva pensare a una conclusione diversa, come lasciato presagire dal discorso con cui il mese scorso il presidente americano, Donald Trump, aveva minacciato di apporre dazi fino al 100% a quei paesi NATO che continuavano ad acquistare petrolio da Mosca (con chiaro riferimento a Ungheria e Turchia).
La Serbia non è un paese NATO ma tant’è, il principio vale lo stesso, e vale perché la NIS è partecipata al 45% della russa Gazprom mentre un ulteriore 11% è detenuto da un’altra società russa riconducibile alla Gazprom stessa.
Una partecipazione, quella di Gazprom, concretizzatasi già nel 2008, da quando il governo serbo decise di alienarsi quasi la metà delle quote societarie per una cifra – 400 milioni di euro – ritenuta all’epoca dei fatti irrisoria, avocando a sé solo il 30%.
Fino a quando dureranno le scorte
A stretto giro è arrivata la comunicazione con cui la Jadranski Naftovod, (JANAF), la società croata a partecipazione statale che gestisce l’oleodotto che eroga la maggior parte del greggio importato dalla Serbia, ha annunciato l’interruzione delle forniture in quanto la NIS “non ha ottenuto la licenza necessaria per continuare a rispettare il contratto di trasporto del petrolio greggio”.
Professa tranquillità la NIS, che per bocca del suo amministratore delegato Kiril Tyurgyenev conferma che non ci saranno problemi di approvvigionamento nel breve periodo e che le oltre trecento stazioni disseminate per il paese verranno regolarmente rifornite (lo stesso per quelle presenti in Bosnia).
Dušan Bajatović, direttore di Srbijagas, ha confermato che le scorte di combustibile in Serbia sono “sufficienti per sei-otto mesi” e che non c’è “alcuna minaccia di shock dei prezzi o di carenza di carburante”. Molto meno ottimistica è la previsione di Jelena Radun, co-proprietaria della catena di stazioni di servizio Radun Avia, secondo la quale la disponibilità non traguarderebbe oltre la fine dell’anno.
A rischio stipendi e accesso ai circuiti di credito
Non è difficile attendersi, tuttavia, che a pagare il prezzo delle sanzioni saranno innanzi tutto i cinquemila dipendenti della NIS, il cui posto di lavoro appare quanto mai a rischio. Il congelamento dei conti esteri societari potrà rendere difficoltoso il pagamento dei loro stipendi. E lo sfilamento da parte di molte aziende e banche private da qualsivoglia collaborazione con la NIS – nel timore di essere a loro volta trascinate nello medesimo vortice – potrebbe comportarne un’irreversibile crisi finanziaria.
A ruota, poi, il problema potrebbe riflettersi sui consumatori che si vedranno innanzitutto impossibilitati dal pagare la sosta alle stazioni tramite carte di credito internazionali come VISA, Mastercard e American Express che operano su un sistema statunitense – e che potranno dover far fronte al più che probabile aumento dei prezzi alla pompa e forse anche a un razionamento.
Nazionalizzare? Ma Gazprom non ci sta
Un’altra bella tegola per il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che di tutto aveva bisogno fuorché di questo nuovo fronte di crisi, specie in un periodo in cui la sua popolarità è ai minimi storici e che le proteste che scuotono il paese da mesi lo hanno fortemente indebolito.
Un cul-de-sac dal quale è difficile uscire, a maggior ragione se si intende escludere a priori un’acquisizione o una almeno temporanea nazionalizzazione del colosso petrolifero serbo. Liberarsi dell’ingombrante partner russo appare, allo stato delle cose, la via maestra per una soluzione strutturale del problema. A patto, naturalmente, di disporre delle necessarie risorse economiche e, soprattutto, dell’indispensabile volontà politica.
Condizioni, entrambe, che appaiono oggigiorno irrealizzabili, come confermato dallo stesso presidente serbo che ha definito l’ipotesi di nazionalizzazione come “l’ultima cosa che farei”. Salvo poi ammettere – seppur indirettamente – di non aver alcun margine di manovra in tal senso, poiché Gazprom non sarebbe disposta a ritirarsi volontariamente dal mercato e che, al contrario, sarebbe motivata a rimanere in una regione che considera di suo interesse.
La via stretta per una soluzione
Vista da questa prospettiva, dunque, sembra anche difficilmente percorribile la via croata, quella paventata dal ministro dell’Economia croato Ante Šušnjar che ha dichiarato la disponibilità del suo paese all’acquisizione di NIS. Un tentativo di proteggere la JANAF – per la quale NIS rappresenta un cliente pluridecennale, oltre che il 30% del suo mercato – e, con essa, gli interessi stessi della Croazia che partecipa la società energetica croata al 15%.
Saranno cruciali, dunque, le settimane prossime per capire come il governo serbo riuscirà a destreggiarsi in questa intricatissima matassa. Specie, se e quando si cominceranno a formare le file ai distributori e la pressione della gente inizierà a farsi insostenibile.
Foto: Oliver Bunic, AFP