La Russia oltre l’arresto di Navalny


Aleksej Navalny è dunque tornato in Russia, dopo oltre quattro mesi di recupero dall’avvelenamento provocato dal Novičok, trascorsi in Germania. Il volo è atterrato il 17 gennaio con un dirottamento — per “motivi tecnici” afferma la compagnia Pobeda — dell’ultimo minuto sull’aeroporto di Šeremet’evo, a nord-ovest del centro di Mosca, invece di atterrare come previsto a Vnukovo, almeno un’ora di auto più a sud (60 km) al netto dei consueti ingorghi di traffico dell’MKAD, il “grande raccordo anulare” moscovita. 

Una piccola folla di sostenitori e giornalisti lo attendeva per salutarlo un’ultima volta all’aeroporto di Berlino-Brandeburgo; una grande folla (2000 persone, secondo alcuni) lo aspettava per accoglierlo a Vnukovo. Aleksej Navalny ha deluso, suo malgrado, sia gli uni che gli altri (tranne quei giornalisti che hanno acquistato il biglietto aereo e così documentato il volo dell’oppositore russo): il politico è infatti stato scortato fino a bordo, in Germania, direttamente da un’Audi della polizia; è stato poi prelevato, in Russia, dagli agenti al controllo passaporti e condotto alla stazione di polizia di Chimki, non distante dal terminal. 

L’arresto era annunciato e non deve stupirci. Al contrario, se Mosca non avesse fermato Navalny al suo rientro, qualche quesito sarebbe stato da porselo. Il Cremlino non ha alcuna intenzione di venire meno alla performatività delle proprie azioni: skázano — sdélano, (ciò che vien) detto, (dev’esser) fatto. 

Dal canto suo, Navalny ha ragione a dire: “Sono arrivato a casa e non ho paura” (queste le parole del politico all’atterraggio). Non ha certo nulla da perdere (la vita, certamente, come scrivevamo): politicamente, se ancora vuole sperare di contare qualcosa in Russia, doveva rientrare. La vicenda dell’avvelenamento gli ha, paradossalmente ma non troppo, regalato un vero e proprio salto di qualità in termini di popolarità e apprezzamento. Stando a un sondaggio dello scorso settembre del centro Levada, il 77% degli intervistati ha sentito parlare dell’avvelenamento; se nel 2013, inoltre, il 59% dei russi non aveva idea di chi fosse Navalny, oggi solo il 18% ignora tuttora il suo nome. Resta il fatto che la metà esatta degli intervistati ancora non sostiene le attività di Navalny (il 10% su 1605 intervistati, dato in crescita rispetto agli anni scorsi, afferma invece di rispettarlo come politico). 

Insomma, Navalny è un “oppositore di Putin” più all’estero che in patria, dove invece in soldoni avrebbe ancora molta strada da fare nel catturare le simpatie degli elettori. E, forse, come abbiamo scritto più volte, non ne ha nemmeno la cosiddetta stoffa. È tuttavia biograficamente e caratterialmente un profilo adatto ai tabloid, alle prime pagine, agli scandali e si inserisce molto bene nella narrazione diffusa in Europa e oltreoceano della “Russia di Putin”, nella realtà dei fatti una società molto più complessa e articolata di come viene raccontata.

Se però, a conti fatti, è attraverso la figura di Navalny che la narrazione mainstream della Russia varca i confini del consueto e rende chiaro al mondo che “c’è del marcio nel regno di Russia”, ben venga. Sebbene ci si augura che la conoscenza di questo “regno” si approfondisca, abbracciando le storie dei centinaia di prigionieri politici presenti oggi nelle carceri russe, le maglie del diritto che si fanno sempre più strette attorno alla società civile, al mondo dell’informazione e dell’attivismo, le diverse pratiche di repressione e autocensura diffuse oggi nel paese (a prescindere dalla presenza o meno di pandemie in atto), aspetti che su queste pagine da anni cerchiamo di non tralasciare. Insomma, si parla, come dicevamo, di uno stato che quasi non teme di riconoscere apertamente il diritto di eliminare fisicamente i propri oppositori.

Veniamo tuttavia all’arresto. Di certo Navalny non è stato arrestato per motivi legati al suo avvelenamento, né — come in molti hanno scherzato con vignette e battute sui social — per il richiamo del vaccino Sputnik. La vicenda giudiziaria “Yves Rocher” a suo carico risale al 2014: Aleksej e il fratello Oleg sono stati condannati per frode e riciclaggio di denaro (secondo l’accusa, i Navalny convinsero Yves Rocher a siglare un contratto non redditizio); mentre a Oleg è toccato scontare la pena di 3,5 anni in carcere, Aleksej ha ottenuto la condizionale. Nel 2017 la Cedu ha dichiarato il processo motivato politicamente: il governo russo ha dovuto così risarcire economicamente Navalny, ma non ha cancellato la pena. Anzi: il servizio penitenziario federale russo (Fsin) chiede ora che la pena condizionale di Aleksej Navalny sia convertita in 3 anni e mezzo di carcere, poiché avrebbe violato gli obblighi di libertà vigilata; gli verrebbero “scomputati” appena i dieci mesi trascorsi effettivamente agli arresti domiciliari. Dunque, atterrato in Russia, la polizia lo ha prelevato e messo in custodia cautelare per trenta giorni. 

Non è tuttavia una procedura del tutto legale, come subito hanno osservato in molti: il Codice penale della Federazione russa non prevede infatti la possibilità di detenzione su decisione del servizio penitenziario, né vi è sancita la legittimità di trattenere per 30 giorni un condannato con la condizionale. Inoltre, non è stato dato alcun tempo alla difesa per familiarizzare con i materiali del caso. Infine, sorgono dubbi sulla legittimità di svolgere un processo direttamente nella struttura della stazione di polizia, e non presso la sede di un vero palazzo di giustizia.

A livello internazionale sono arrivati i primi inviti ufficiali alla scarcerazione del politico, in primo luogo da una decina di stati Ue (Italia compresa), ma anche dagli Stati Uniti.

Nel frattempo, attraverso un video, Aleksej Navalny ha invitato i suoi sostenitori a protestare in piazza Puškinskaja a Mosca il 23 gennaio.

Immagine: Christian Mang / Reuters / Scanpix / LETA

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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