Iran e Russia

Russia e Iran tra illusioni e alleanze

La guerra tra Israele e Iran ha aperto un nuovo fronte nella crisi mediorientale, l’ennesimo. Con l’amministrazione statunitense sempre più prossima all’entrata nel conflitto e il supporto per Tel Aviv espresso dai vertici europei, che ne è della partnership tra Iran e Russia?

Amici nemici

Nonostante l’alleanza più o meno istituzionalizzata che lega Russia e Iran, le parole di condanna del Cremlino per i fatti di questa settimana sono sembrate piuttosto morbide. A seguito dei suoi colloqui con il presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, e il primo ministro israeliano Netanyahu, Putin ha espressole sue condoglianze alle autorità e ai cittadini dell’Iran per l’alto numero di morti risultati dagli attacchi israeliani […] i quali sono stati condotti in violazione delle leggi internazionali”. Insomma, probabilmente non sono queste le dichiarazioni che i vertici dello stato iraniano – descritto per mesi dalla stampa occidentale come uno dei più fedeli alleati di Mosca – avrebbero voluto leggere.

Viene da chiedersi quanto siano effettivamente vicini i due stati, e cosa questo conflitto significhi per Putin e la sua cerchia.

Innanzitutto, va sottolineato che, nonostante all’inizio dell’anno sembrava essersi compiuto il definitivo e più importante avvicinamento tra i due paesi – la firma del Trattato di Partnership Strategica – questo rimane più una dichiarazione di intenti e un raggruppamento di iniziative già esistenti più che l’avvio di una collaborazione vincolante.

L’articolo 3 vieta ad entrambi i paesi di fornire assistenza militare ad un paese terzo che dovesse aggredire uno dei due – in questo caso, cioè, la Russia non può fornire armamenti ad Israele, uno scenario già di per sé improbabile. I restanti 46 articoli auspicano sostanzialmente una più stretta collaborazione in svariati ambiti, da quello militare a quello politico, passando per quello economico, senza particolari obbligazioni.

La sensazione è che Putin non voglia legarsi ad un cavallo che, se non è perdente, di certo non sembra indiscutibilmente destinato a prevalere. Impegnarsi in ulteriori conflitti significa impiegare risorse che possono essere destinate al conflitto ucraino o al budget interno: almeno dall’autunno 2024, infatti, Mosca sembra voler proseguire una strategia di disimpegno dai fronti che non siano quello ucraino – qualcosa che abbiamo già visto succedere in Siria e in Africa.

È emblematico, d’altra parte, leggere ciò che scrivono i giornali russi a proposito del conflitto. Le azioni israeliane vengono sempre condannate, ma non vengono nascosti i vantaggi che la Russia può trarre in questa situazione. Dallo spostamento dell’attenzione dell’opinione pubblica ai prezzi del petrolio, Mosca ha ragione di vedere il bicchiere mezzo pieno.

Così, per esempio, si legge nell’articolo di Dmitrij Popov sul Moskovsky Komsomolets del 16 giugno: “Kiev è stata dimenticata, tocca a noi occuparci di Kiev. E anche dell’Europa”. E ancora: “Ebbene, nel frattempo, i prezzi del petrolio stanno salendo (e l’Iran minaccia di impossessarsi dello Stretto di Hormuz, attraverso cui passa quasi un terzo delle riserve mondiali di petrolio), l’Ucraina viene privata dei mezzi per contrastare i nostri droni ora in Medio Oriente [in riferimento ai possibili spostamenti dei sistemi di contraerea americani, NdA] e, in generale, le forniture di armi vengono ridotte, Trump tace generalmente sull’accordo russo-ucraino. Per quanto cinico possa sembrare, a livello tattico ci sono dei vantaggi per noi nel conflitto tra Iran e Israele”. E infine: “Vale la pena notare che Trump ha già taciuto su Russia e Ucraina […]. Deve essersi stancato di fare la pace. E poi c’è stata una telefonata molto amichevole da Putin – “Buon compleanno, Donald” [in riferimento alla telefonata del 14 giugno, nella quale Putin ha fatto gli auguri a Trump, NdA].

A tutto ciò va aggiunta poi la possibilità, sempre più concreta, che Putin possa fare da paciere tra le due parti, assicurandosi sia un rinnovato prestigio internazionale, sia, forse, una leva negoziale nel contesto russo-ucraino.

‘Regime change’, vecchie e nuove utopie

Un altro fattore che accomuna le vicende di Iran, Russia, Ucraina ed Israele e che vale la pena sottolineare è la nuova/vecchia utopia del cosiddetto “regime change”, raggiungibile attraverso operazioni militari. L’idea, cioè, che bombardare più o meno indiscriminatamente una nazione possa creare una frattura così ampia ed evidente tra la popolazione civile e le élites tale da fare insorgere la prima contro le seconde. A prescindere dal tasso di democraticità e di rappresentatività dei vertici di un paese, quella del cambiamento di regime attraverso le armi rimane un’utopia, come hanno dimostrato decenni di guerre. Ciò vale oggi per l’Iran – un regime tutt’altro che democratico – come valeva ieri per l’Ucraina, davanti alla quale alcuni settori della politica russa pensavano sinceramente di presentarsi come benefattori e liberatori. E ciò vale anche per la stessa Russia, dove la tanto attesa “spallata interna” non è mai arrivata, né dopo la prima controffensiva ucraina né a seguito delle svariate operazioni portate avanti dal Servizio di Sicurezza Ucraino.

Varie sono le interpretazioni e le spiegazioni a questo fenomeno. Tra le più convincenti – circa il caso russo, ma applicabili, mutatis mutandis, al contesto iraniano e ad altri scenari – ci sono quelle dell’etnografo e antropologo Jeremy Morris (Everyday Politics in Russia. From Resentment to Resistance) e della sociologa Karine Clément. Riassumendo molto schematicamente: alcuni settori della popolazione avversi al regime sfrutteranno certamente ogni possibile spiraglio per farlo crollare; ma molti altri, che negli anni si sono rivelati tiepidi – quando non decisamente avversi – rispetto alla classe dirigente, si troveranno a difenderne gli interessi, non in nome della sopravvivenza della stessa, ma a difesa dell’integrità territoriale, del patriottismo, delle tradizioni.

Insomma, è forse giunta l’ora di ammettere una volta per tutte l’inadeguatezza delle operazioni di “regime change”, che rimangono mere utopie, quando non diventano maliziose giustificazioni.

Foto: Wikimedia Commons

Chi è Davide Cavallini

Laureando in Storia. Cuore diviso tra la provincia est di Milano e l'Est Europa. Appassionato di movimenti giovanili, politiche migratorie e ambientali, si occupa principalmente di Romania, Moldavia e Russia.

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