Il peccato originale della democrazia russa e il ritorno di Stalin

Il peccato originale della democrazia russa

Io credo che Piazzale Loreto sia il nostro peccato originale di democrazia […] perché ci è mancato quel momento di assunzione di responsabilità collettiva che la Germania ha vissuto con Norimberga. Noi invece la abbiamo risolta con la corda, e quelle che erano responsabilità comuni, collettive sono diventate colpe individuali e sono state impiccate, e dal giorno dopo tutti partigiani” diceva la nostra rimpianta Michela Murgia.

Cambiando qualche addendo, il risultato non cambia.

Era il 25 febbraio 1956. Stalin era morto da tre anni, ma quel giorno il suo successore, Nikita Chruščëv, leggendo il celebre rapporto “sul culto della personalità e le sue conseguenze”, impiccò metaforicamente il Generalissimo davanti al XX Congresso del Partito Comunista, e allo stesso tempo privò il popolo sovietico del proprio momento di assunzione di responsabilità collettiva. Iniziavano così la destalinizzazione e il disgelo di Chruščëv.

Due aspetti strettamente connessi della destalinizzazione ne hanno minato l’efficacia, favorendo oggi una quasi completa riabilitazione di Stalin e il suo ritorno indisturbato nello spazio pubblico russo. Da un lato, la natura ufficiale ma mai legislativa delle misure adottate contro Stalin; dall’altro, il fatto che, di conseguenza, si riconoscessero delle vittime senza mai indicarne o accusarne i carnefici.

In effetti, le uniche disposizioni adottate durante la destalinizzazione riguardavano la riabilitazione delle vittime delle grandi purghe (1955) e la restaurazione dell’autonomia di alcune regioni  (a partire dal 1953) che doveva favorire il rimpatrio di quelle nazionalità una volta considerate nemiche del popolo. Tutte le altre misure, inclusa la ridenominazione di Stalingrado in Volgograd e la rimozione delle statue e della stessa salma di Stalin dal mausoleo in Piazza Rossa, procedevano silenziosamente e attraverso istruzioni di partito o iniziative municipali.

Per quanto riguarda le statue di Stalin, nonostante la mancanza di dati precisi sul loro numero prima della destalinizzazione, si sa che la rimozione di una statua a Rubtsovsk, nel Territorio dell’Altaj, nel luglio del 1956, diede il via a quell’ondata iconoclasta che culminò poco dopo il XXII Congresso del PCUS nel 1961, e che portò all’abbattimento di quasi tutti i monumenti dedicati a Stalin.

Ma con la statua non crollava l’idolo. E già sotto Brezhnev, la memoria collettiva legata al mito della Grande Guerra Patriottica favorì la diffusione di “tendenze volte alla riabilitazione parziale o indiretta di Stalin”, come denunciato da 25 esponenti dell’intelligentsija sovietica in una lettera aperta del 1966.

Bisognerà attendere la segreteria Gorbaciov perché  si aprisse un vero dibattito pubblico e perché si gettassero le basi per una condanna formale non più contro ignoti, ma con accuse sempre più dirette a Molotov, Kaganovich, Voroshilov e Malenkov oltre che, ovviamente, Stalin. L’istituzione della nuova Commissione per la Riabilitazione delle Vittime della Repressione Politica (1988)  e del Congresso dei deputati del Popolo (1989), durante gli anni di glasnost‘, avevano anche questo scopo.

Tuttavia, prima che questo processo potesse anche solo iniziare, la disintegrazione stessa dell’Unione richiamò a sé tutta l’attenzione, privando la Russia di una sua fondamentale necessità storica e sociale e lasciando un vuoto che meglio di tutti ha saputo sfruttare Vladimir Putin.

Putin e il ritorno di Stalin

Oggi, nel territorio della Federazione, si contano circa 110 monumenti raffiguranti Stalin. Di questi più di 95 sono stati realizzati durante la – lunga – presidenza di Putin. E fra i più recenti, forse anche per essere particolarmente esposti, hanno ricevuto maggiore attenzione dai nostri media un busto di Stalin posizionato all’ingresso del museo della Grande Guerra Patriottica a Volgograd, e una scultura all’interno della stazione Taganskaya della metro di Mosca. 

Ma perché Putin sembra ossessionato da Stalin?

La risposta è da ritrovarsi nel potenziale dell’immagine di Stalin come catalizzatore politico e identitario. Intorno alla sua figura rimane salda una memoria collettiva di unità, di sacrificio e di eroismo, soprattutto in quanto leader durante la Grande Guerra Patriottica e quindi della vittoria del popolo sovietico sul nazi-fascismo, fonte inesauribile di legittimazione e di orgoglio nazionale, come dimostra la propaganda intorno all’Operazione Militare Speciale.

Memoria e orgoglio che però non sembrano né riconosciuti né rispettati al di fuori dei confini della Federazione, dove molte delle ex repubbliche si sono impegnate, dalla loro indipendenza, in processi di rinegoziazione storica e nella riscrittura del proprio passato comunista in termini colonialisti, imperialisti e di occupazione.

Il legame fra i processi di decomunistizzazione delle repubbliche indipendenti e il revisionismo storico russo ce lo consegna una lettera dell’allora ministro della cultura russo, Medinsky, che in reazione alle leggi ucraine sulla decomunistizzazione del 2015 affermava come “secondo la posizione russa le prove dell’era sovietica devono essere preservate per ricordarci la forza dello spirito umano, l’eroismo militare e il lavoro dei nostri predecessori“.

Ancor più di questo, secondo altri, fu la risoluzione del 2019 della Commissione europea per la memoria a scatenare la reazione russa. In questo documento si afferma come “la Seconda Guerra Mondiale […] scoppiò come diretta conseguenza del famigerato Trattato di non aggressione tedesco-sovietico del 23 agosto 1939 (Molotov-Ribbentrop) e dei protocolli segreti ad esso allegati”

La Russia, così, non era solo stata esclusa dal processo di scrittura di una storia comune europea, ma veniva anche alterizzata e ritenuta responsabile di espansionismo imperialista (dalle ex repubbliche) e della responsabilità storica della seconda guerra mondiale, al pari della Germania nazista (dall’Europa).

Una narrativa inaccettabile che ha provocato, per Mosca, la necessità di riaffermare una narrativa storica e nazionale fondata sull’orgoglio e sulla ‘dimensione eroica della vita’ di cui comunismo e imperialismo erano eguale manifestazione, e a cui la velikaja Rossija putiniana punta a tornare . E di cui l’iconografia stalinista altro non è che correlativo oggettivo, giustificandone un ritorno quasi capillare nello spazio pubblico russo, sintomo e conseguenza di una destalinizzazione, realmente, mai avvenuta. 

Chi è Luca Ciabocco

Ha ottenuto una laurea triennale in lingue e culture straniere presso l'Università di Urbino, ed è attualmente studente magistrale di studi dell'est Europa ed euroasiatici a Bologna. I suoi interessi riguardano nazionalismo, identità e aspetti sociali e culturali dello spazio post-sovietico.

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