Lo scorso 7 giugno, nella città kirghisa di Osh, è stato rimossa un simbolo imponente del passato sovietico: la statua di Vladimir Lenin, considerata la più grande dell’Asia Centrale. L’opera del 1975, alta 23 metri e dominante una piazza centrale della seconda città del paese, è stata smantellata nel quadro di quella che le autorità locali definiscono un’operazione di restyling urbano.
Secondo l’amministrazione cittadina di Osh, al posto del leader rivoluzionario sorgerà un nuovo simbolo nazionale: un pennone maestoso di 95 metri destinato a esibire la bandiera del Kirghizistan. Il sindaco della città si è affrettato a sottolineare l’assenza di significati politici occulti dietro la decisione. L’evento “non va politicizzato”, ha dichiarato, ricordando come azioni simili siano state intraprese anche in altre città post-sovietiche, spiegando di voler emulare quello fatto nella capitale Bishkek, quando spostarono la stutua di Lenin.
Oltre le apparenze
Tuttavia, al di là delle rassicurazioni ufficiali, la rimozione di una statua così iconica e visibile difficilmente può essere considerata un mero intervento di arredo urbano privo di significato. L’azione appare coerente con una tendenza più ampia osservata in diversi stati sorti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica: il graduale distacco simbolico dalla dominazione russa e l’affermazione di identità nazionali autonome.
Nei paesi del blocco orientale e in modo particolarmente marcato in Ucraina dopo il 2014, si sono verificate vere e proprie campagne di “decomunistizzazione“. Queste politiche hanno coinvolto la sistematica rimozione di statue, la ridenominazione di strade e piazze, e la revisione dei libri di storia, con l’obiettivo esplicito di liberarsi dal pesante retaggio sovietico e costruire una narrazione storica nazionale indipendente. L’abbattimento di monumenti a figure come Lenin è diventato un potente atto performativo per segnare una discontinuità con il passato e affermare una nuova traiettoria politica e culturale.
La politica internazionale dell’Asia Centrale: un equilibrio delicato
L’evento che riguarda la statua di Lenin a Osh va inquadrato nel delicato gioco delle grandi potenze che caratterizza l’Asia Centrale post-sovietica. I cinque “stan” praticano da anni una diplomazia multipolare per non cadere nella sfera d’influenza esclusiva di nessun attore. La Russia resta un partner storico e cruciale – mercato vitale per gli emigranti, garante di sicurezza (CSTO), legami culturali profondi – ma l’invasione dell’Ucraina ha acceso sirene d’allarme, spingendo i leader centroasiatici a una cauta distanza per evitare le sanzioni occidentali e frenare timori di un revanscismo imperialista.
Contemporaneamente, l’ombra della Cina si allunga in modo massiccio, trainata dagli investimenti mastodontici della Belt and Road Initiative che fanno di Pechino il principale partner commerciale, sebbene accompagnati da preoccupazioni sul debito e la sorveglianza. L’Occidente, dal canto suo, cerca di ritagliarsi uno spazio promuovendo governance, diritti umani e stabilità, offrendo aiuti e partnership alternative, e gli ultimi incontri della premier Giorgia Meloni ne fanno da esempio.
In questo quadro complesso, i paesi della regione tentano di rafforzare la propria autonomia attraverso una cooperazione reciproca più stretta e un coordinamento regionale, reso urgente da instabilità interna e conflitti di confine. La rimozione del monumento sovietico riflette questa ricerca d’identità nazionale, un passo simbolico nel faticoso cammino per definire un futuro svincolato dal passato, mentre si naviga tra le pressioni dei giganti che li circondano.
Un simbolo in un mosaico complesso
La statua rimossa di Lenin, quindi, non può essere liquidata come un semplice intervento di abbellimento cittadino. Pur non rappresentando necessariamente una rottura radicale con Mosca alla stregua delle politiche baltiche o ucraine, è un sintomo significativo del percorso di ridefinizione identitaria intrapreso dal Kirghizistan e, più in generale, dai paesi dell’Asia Centrale. È un gesto che parla del desiderio di guardare al futuro, forgiando una narrazione nazionale meno legata al passato sovietico.
Questo gesto simbolico si colloca nel quadro della complessa danza geopolitica regionale. Mentre cercano di affermare la propria sovranità e identità, i paesi centroasiatici devono continuare a destreggiarsi abilmente tra le pressioni e le opportunità offerte da Russia, Cina e Occidente, cercando di preservare la stabilità interna e promuovere lo sviluppo economico. La caduta del Lenin di Osh è un tassello, piccolo ma eloquente, nel mosaico in continua evoluzione della politica e dell’identità nell’Asia Centrale post-sovietica. Riflette sia la ricerca di un futuro più autonomo sia le persistenti sfide di una regione crocevia di interessi globali.