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RUSSIA: Indifferenza e inquinamento stanno uccidendo l’ambiente

di Martina Bergamaschi e Leonardo Scanavino

Fiumi che diventano rossi a causa di sversamenti di materiali inquinanti, laghi-discarica di rifiuti radioattivi e città grigie con ciminiere fumanti sullo sfondo: purtroppo, i disastri ecologici sono ormai parte integrante dell’immagine comune della Russia. Del resto, solo quest’anno è stato distrutto un intero ecosistema marino in Kamčatka, a Noril’sk è avvenuta la peggior fuoriuscita di carburante nell’Artico della storia e, come se non bastasse, 20,9 milioni di ettari di foresta sono andati a fuoco in Siberia. Senza contare le centinaia di altre piccole e grandi crisi ecologiche a livello locale che continuano da anni o decenni e che non vengono riprese dai media internazionali. Ma perché la Russia è diventata sinonimo di disastri ecologici?

Problemi sistemici di lunga data

Se da un lato la Russia è il paese con il maggior numero di aree naturali protette al mondo, con migliaia di chilometri quadrati di habitat sostanzialmente intatti, a inquinare l’aria e l’acqua è la costellazione di grandi industrie pesanti, obsolete e altamente inquinanti, sparse per tutto il Paese. Molte di queste industrie pesanti si trovano nelle cosiddette monogorod, “monocittà”, così chiamate proprio perché vivono grazie a una singola grande industria, in cui è impiegato almeno il 20% della popolazione. È questo il caso della già citata Noril’sk, che sopravvive grazie al lavoro dato dalla compagnia per l’estrazione di nichel e palladio Nornikel. Grazie a un’intensa attività lobbistica, i CEO di queste grandi industrie, quasi sempre oligarchi miliardari che si sono accaparrati la loro gestione durante le privatizzazioni degli anni novanta, riescono ad aggirare gli obblighi di ammodernamento ecologico degli impianti e spesso tentano di nascondere i danni ambientali che provocano – come la fuoriuscita di più di 20.000 tonnellate di carburante dagli impianti di Nornikel lo scorso maggio.

Trasparenza, questa sconosciuta

A ciò si unisce una generale mancanza di trasparenza, anch’essa (almeno in parte) un lascito sovietico: i dati a disposizione sull’inquinamento sono pochi, quasi mai indipendenti e sempre frammentari. Alcune informazioni, come quelli riguardanti l’energia nucleare ed eventuali emissioni di materiale nucleare, sono inaccessibili al pubblico in quanto considerati materia di sicurezza nazionale e pertanto di esclusiva competenza del ministero della difesa.

Anche l’ultimo disastro ambientale in ordine di tempo, emerso agli inizi di ottobre 2020 in Kamčatka, al momento sembra rientrare pienamente nella sistematica mancanza di trasparenza che caratterizza le vicende ambientali in Russia. Un iniziale maldestro tentativo delle autorità locali di tenere nascosto l’inquinamento delle acque oceaniche è venuto meno quando sono state rinvenute le carcasse di centinaia di animali marini sulle spiagge tra Capo Nalyčev e la Baia di Avača. Greenpeace ha successivamente portato la vicenda all’attenzione della stampa internazionale e anche a Mosca qualcosa si è mosso. Il risultato? “È stata la tossicità delle alghe”, ha detto il ministro dell’ambiente Dmitry Kobylkin all’agenzia stampa statale russa TASS, aggiungendo che non si è trattato di un danno causato dall’uomo. Un ennesimo tentativo di insabbiamento? Solo le indagini indipendenti che stanno proseguendo ce lo potranno dire. Intanto, nell’ambito di un rimpasto di governo più ampio, Kobylkin è stato sostituito da Alexander Kozlov, ex Ministero per lo sviluppo dell’Estremo Oriente russo e dell’Artico

Tra immobilismo centrale e attivismo locale

Oltre a riconoscere il diritto costituzionale dei cittadini russi a vivere in un ambiente sano e alla ratificazione formale di trattati internazionali a tema ambientale (tra cui l’accordo di Parigi), il governo russo ha fatto molto poco. Ma il disinteresse per le politiche ambientali potrebbe avere vita breve. Secondo un recente sondaggio, per i russi l’inquinamento costituisce la prima minaccia per il paese, più pericoloso del terrorismo e dei conflitti armati. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono, in fondo, sotto gli occhi di tutti – quest’anno nell’estremo nord Siberia si sono registrate temperature mai viste, fino a 38° durante l’estate. Più recentemente, a fine ottobre 2020, è stata rilevata un’inusuale assenza di ghiaccio sulle coste della regione artica.

Se l’eterna scelta tra salute e lavoro scoraggia l’attivismo locale nelle “monocittà”, altri problemi, come quello della gestione dei rifiuti, sono riusciti a mobilitare la popolazione. Una serie di proteste contro le discariche a cielo aperto aveva scosso moltissime città della provincia russa l’anno scorso, mentre quest’anno è stato segnato dalle manifestazioni contro la costruzione di una nuova discarica nell’estremo nord destinata ad accogliere i rifiuti di Mosca.

Alla fine degli anni ottanta, dopo la catastrofe di Chernobyl e in seguito alle politiche gorbacioviane di cui la glasnost’ (trasparenza) è stata un simbolo, le questioni ambientali fecero da motore a nuovi movimenti di opposizione, che persero poi slancio tra le difficoltà economiche degli anni novanta. La situazione attuale, sulla scorta degli effetti dei cambiamenti climatici sempre più visibili e di una ritrovata consapevolezza delle problematiche ambientali, potrebbe dare una nuova forza all’attivismo locale in materia ecologica – e non solo.

Foto: Moscow Times

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