CINEMA: Taxi Teheran, un film clandestino sull’Iran di oggi

L’Iran è un paese che non muore malgrado un regime soffocante e disumano che da più di trent’anni cerca di strappargli l’anima. Ma l’anima, così antica, non ci pensa proprio a lasciare quel vecchio corpo malandato, offeso dalla dittatura, mutilato dall’ignoranza dell’estremismo religioso, livido per le botte della polizia segreta. Il film Taxi Teheran, di Jafar Panahi, vincitore dell’Orso d’oro all’ultimo festival di Berlino e nelle sale in queste settimane, è una delle prove evidenti della tenacia e della volontà iraniana a rimanere in vita.

Jafar Panahi è un regista abituato ai riconoscimenti internazionali. Nel 1997 con Lo specchio vince il Pardo d’oro al Festival di Locarno. Nel 2000, con Il cerchio, è premiato a Venezia con il Leone d’oro. Oro rosso, sceneggiato da Abbas Kiarostami, nel 2003 vince a Cannes ma il film non è mai uscito in Iran a causa della censura. Nel 2006 è la volta di Offside, che a Berlino vince l’Orso per la miglior regia ma che in Iran, di nuovo, non ottiene il permesso per la distribuzione.

Panahi, classe 1960, muove i primi passi nel cinema come assistente proprio di Abbas Kiarostami e da lui eredita il gusto per il realismo. Ma il realismo, in Iran, non è visto di buon occhio. “Sordido realismo” è l’accusa che l’ottuso regime degli Ajatollah rivolge alla sua opera: la realtà, come recita un passaggio di Taxi Teheran, va mostrata solo quando è bella. Le cose brutte non vanno fatte vedere. “La miglior censura è l’autocensura” dice, nel film, la nipotina del regista quando spiega allo zio, che guida il taxi per sbarcare il lunario, quello che la maestra ha insegnato a scuola.

Panahi ha subito per due volte l’arresto. L’ultima, nel 2010, gli è costata anche il divieto a girare film. Taxi Teheran nasce come sfida alla censura. Alla guida di un taxi, è la società iraniana che entra nella sua auto e lui la riprende da una telecamera piazzata sul cruscotto. Teheran, megalopoli gigantesca, scorre sotto le ruote e lungo la pellicola. I vari personaggi rappresentano ognuno uno spaccato della moderna Persia, fino all’arrivo del personaggio della nipotina, Hana, attraverso cui Panahi mette in scena il cinema nel cinema e svela, nell’innocente intelligenza della bambina, la criminale ignoranza del regime.

La critica al regime, tuttavia, non è espressa attraverso un grido di denuncia ma per lievi tocchi, accenni dietro cui si spalancano mondi che nel film si limitano ad affacciarsi. “L’hai sentita quella voce?” “Che voce?” “Quella voce che gridava. Mi sembrava la voce di quello che mi ha torchiato”. Il dramma vero non ha bisogno di grandi sceneggiate, bastano poche nude parole.

Quando sale l’avvocatessa, mazzo di rose rosse in mano, il pensiero corre a Shirin Ebadi, pubblico ministero e giudice che nel 1979, dopo la Rivoluzione islamica, come tutte le donne ha dovuto abbandonare la magistratura senza però darsi per vinta e diventando la legale dei dissidenti, guadagnandosi nel 2003 il premio Nobel per la Pace. Nel film, l’avvocatessa è diretta a casa della famiglia di una ragazza detenuta in carcere per avere tentato di entrare allo stadio, luogo proibito alle donne. Non è fiction, è cronaca di tutti i giorni. Il 20 giugno scorso Ghomcheh Ghavami è stata fermata per aver tentato di assistere a Iran-Italia nello stadio Azadi di Teheran, arrestata e messa in isolamento nel carcere di Evin – lo stesso in cui è finito Panahi – con l’accusa di propaganda contro il regime. 

Il film sembra chiudersi con un messaggio di speranza. La rosa sul cruscotto, i pesci ributtati nella fontana quale possibilità di rigenerazione. Finché due poliziotti in borghese penetrano nella macchina momentaneamente abbandonata alla ricerca di un “girato” da distruggere o di cui servirsi contro il regista. Poi il nero.

A ritirare l’Orso d’Oro a Berlino è andata Hana Saeid, la bambina che – nel film come nella vita vera – è nipote di Panahi. Una sedia vuota attende da anni che il regista possa ritirare i suoi premi, ma gli è vietato uscire dal paese. “Finché non verrà, quella sedia sarà lì ad attenderlo” ha dichiarato Dieter Kosslick, direttore del Festival.

Erroneamente accostato da molta stampa a Taxi Driver di Scorsese, il film di Panahi non ha bisogno di padrini hollywoodiani cui essere accostato. E’ cinema, non un blockbuster americano. Ed è cinema europeo. Come tutto il cinema persiano. Ed è questo l’ultimo elemento su cui riflettere: questo paese apparentemente così lontano, questo “stato canaglia” descritto come irriducibile nemico dell’occidente, parla – almeno nell’arte, si pensi solo a Persepolis di Marjane Satrapi – la nostra lingua. Ascoltarla diventa dunque ancor più necessario.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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