È un momento decisamente difficile per Kosovo e Serbia, per quel che succede dentro e fuori confine, e per quel che riguarda ovviamente i rapporti reciproci, ai minimi storici. Se il premier kosovaro, Albin Kurti, è ancora alle prese con l’insolubile rompicapo della formazione del nuovo governo – in stallo da mesi dopo che le elezioni del febbraio scorso hanno consegnato il paese all’ingovernabilità perfetta – non se la passa certo meglio il suo antagonista serbo, il presidente Aleksandar Vučić, la cui popolarità appare compromessa dalle inarrestabili proteste di folla e dalle partecipatissime manifestazioni che attraversano il paese da un anno a questa parte, ovvero dal famigerato crollo della pensilina della stazione di Novi Sad, col suo carico di morti, di polemiche assortite e di indagini della magistratura inquirente.
A mettere il carico ci s’è messo ora l’affaire droni, quelli che il Kosovo sta comprando dalla Turchia, e apriti cielo. Una faccenda tutto sommato utile a entrambi i leader, all’assediato Vucic e al congelato Kurti, per distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dalle fastidiose beghe interne riportandolo finalmente sui temi evergreen del conflitto con l’odiato vicino di casa. Temi rifugio, potremmo dire, dove il nemico è nemico e dove è indubbiamente chiaro chi sia il buono e chi il cattivo (il 95% dei serbi è convito che il Kosovo sia roba loro).
Succede dunque che il Kosovo abbia appena ricevuto un numero imprecisato di velivoli di ultima generazione dalla Turchia, “migliaia” secondo quanto postato da un orgoglioso Kurti. Si tratterebbe dei famigerati Skydagger, i “pugnali del cielo”, tanto per non lasciar dubbi sul loro potenziale. Fabbricati dalla società turca Baykar, leader europea del settore e fornitrice anche dell’esercito ucraino – i droni recapitati a Pristina sarebbero solo un primo lotto di un accordo che prevede altre consegne entro gennaio del prossimo anno. Una cosa di cui si sa da mesi ma che si concretizza proprio nel momento giusto: giusto per Kurti, a rinvigorire la sua propaganda e con essa il sogno non sognato della trasformazione della Kosovo Security Force in un vero e proprio esercito, tema assai popolare e aggregante l’intera classe politica kosovara. Giusto per Vučić che ritrova, così, il caro nemico di sempre, funzionale alla tanto amata narrazione etno-vittimista.
Ed ecco allora che la preoccupazione di Vučić diventa “profonda” e addirittura “brutale” la violazione della Carta delle Nazioni Unite da parte della Turchia, accusata nientepopodimeno “di non volere la stabilità nei Balcani occidentali, ma di sognare un ritorno all’Impero Ottomano”; dichiarazione poi tardivamente ritrattata aggrappandosi alla solita formula del “sono stato frainteso”. Perché d’improvviso il presidente serbo ritiene inaccettabile l’inadempienza alle risoluzioni ONU, riferendosi alla risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza che sancisce che l’unica forza armata autorizzata in Kosovo sia la KFOR, la missione NATO attiva fin dal 1999, dalla fine del conflitto – ragion per cui la proattività della Turchia, anch’essa membro NATO e attualmente addirittura al comando della KFOR, stia creando più di qualche imbarazzo. Sacrosanto protestare, sia chiaro, sebbene non si capisca perché lo stesso metro di giudizio non sia applicato a un’altra risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quella che ha dichiarato l’11 luglio “Giornata internazionale della riflessione e della commemorazione del genocidio di Srebrenica”. A meno che non si ammetta che c’è risoluzione e risoluzione e c’è ONU e ONU.
Nulla, Vučić è “terrorizzato da questa escalation”, un riarmo che “non può avvenire a spese della popolazione serba in Kosovo”, come se da un giorno all’altro Kurti potesse decidersi a lanciare droni kamikaze sulla testa della sua stessa gente, per quanto d’etnia serba.
Fuor di metafora, tuttavia, la faccenda è comunque seria come ribadito dal comando KFOR che nel ricordare di essere l’unica forza autorizzata al presidio dei cieli in Kosovo si è anche detta “strettamente coinvolta” in questa importante questione e di essere “in contatto con le organizzazioni di sicurezza del Kosovo e con le forze armate serbe”. Ma che la situazione meriti la dovuta attenzione è anche indirettamente confermato dalle parole del direttore del Centro per gli studi sulla sicurezza del Kosovo, Mentor Vrajolli, che ha tenuto a sottolineare il “diritto del Kosovo a difendere la sua sicurezza territoriale”, soprattutto quando essa viene “apertamente violata da uno stato vicino”, facendo riferimento al presunto sconfinamento di droni serbi in territorio kosovaro, peraltro mai provato.
Scaramucce, forse, ma da queste parti è sempre bene non scherzare col fuoco; lo stesso fuoco che il ministro degli Esteri serbo, Marko Đurić, accusa d’essere alimentato dalla “benzina” turca e dalle “malevole interferenze” di Ankara negli affari regionali con “conseguenze destabilizzanti” di cui la Serbia “dovrà tener conto nelle sue azioni future”.
Insomma, a Belgrado non l’hanno presa bene ma sarebbe un errore sottovalutare certi segnali e a non seguirli con la dovuta attenzione. Quanto si è visto negli ultimi anni con la tragica apertura di fronti esterni da parte di regimi più o meno agonizzanti guidati da leader alla disperata ricerca di una ragion d’essere politica deve servire da monito. Specie qui, specie ora.
Foto: Euronews.al