Iran donne Hejazi

IRAN: Donne e rivolte, intervista a Sara Hejazi

Iran, donne e rivolte, un libro di Sara Hejazi che, muovendo dalle proteste per la morte di Mahsa Amini, spiega la storia delle donne in Iran. Abbiamo intervistato l’autrice… 

Iran, donne e rivolte

TITOLO: Iran, donne e rivolte

AUTORE: Sara Hejazi

EDITORE: Morcelliana Scholé

ANNO: 2023

PAGINE: 147

PREZZO: 14 euro

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Sara Hejazi – antropologa, ricercatrice presso la Fondazione Bruno Kessler e l’Università di Trento – è autrice di Iran, donne e rivolte (Morcelliana Scholé, 2023) in cui analizza con profondità e chiarezza l’evoluzione della condizione femminile in Iran nell’ultimo secolo. Muovendo dalle proteste che sono seguite alla morte di Mahsa Amini, giovane donna uccisa mentre si trovava in custodia della polizia morale, l’autrice illumina le molte pieghe della recente storia iraniana, i cambiamenti sociali, il sistema di potere, il rapporto con la modernità e il ruolo delle giovani generazioni. East Journal ha voluto intervistarla per comprendere meglio le dinamiche di un Paese troppo spesso vittima di pregiudizi negativi o facili orientalismi.

La storia delle donne in Iran è anche la storia del velo, dell’hijab, simbolo religioso ma anche simbolo politico. Com’è cambiato l’uso del velo e qual è il suo valore oggi nella società iraniana?

Il velo in Iran è un simbolo della modernità. Il suo valore simbolico cambia nel tempo ma si definisce sempre nel rapporto con i modelli occidentali, cui la società iraniana guarda ossessivamente, ora per rifiutarli, ora per integrarli, in un costante rapporto di negoziazione. Nel libro faccio un piccolo excursus di come in Iran si passa a costruire una nazione moderna anche attraverso l’uso del velo e dello svelamento. Il velo viene individuato come un’espressione di arretratezza della condizione femminile fin dalla fine del Diciannovesimo secolo, proprio a partire dal confronto con l’Occidente. Tuttavia, il processo di secolarizzazione che culminerà con la rivoluzione costituzionale (1905) verrà osteggiato dai conservatori, e le due anime del Paese si contrasteranno e intrecceranno nei decenni a venire.

Il velo verrà vietato per legge durante gli anni Trenta da parte del regime di Reza Pahlavi, all’interno di un percorso di laicizzazione della società condotto a tappe forzate. Nel 1941, lo Shah fu però costretto ad abdicare in favore del figlio, Mohammad Reza Pahlavi, che abrogò il divieto. Tuttavia, il velo resterà il simbolo della lotta politica contro il regime pahlavide che ostentava uno stile di vita occidentale. Così, quando negli anni Settanta scoppiarono le proteste contro l’autocrazia pahlavide, le donne laiche iniziarono a velarsi in forma esclusivamente politica, svuotando l’atto di coprirsi il capo del suo valore religioso e conferendogli invece la capacità di esprimere una dissidenza nei confronti dello Shah. Il velo divenne così espressione di una modernità diversa da quella occidentale.

E dopo la Rivoluzione islamica?

Dopo la Rivoluzione islamica (1979) il simbolo si svuota poiché perdendo valore politico diventa unicamente un simbolo morale di cui le giovani generazioni non colgono più il senso, anche perché gli stili di vita sono progressivamente mutati, la società è andata urbanizzandosi, l’esplosione demografica ha cambiato mentalità e costumi, gli stili di vita si sono omologati e globalizzati – attraverso internet, i social, l’economia di mercato – e la contrapposizione con i valori occidentali ha perso di significato. Lo sforzo del regime di imporre un’identità collettiva remissiva alle donne, anche attraverso l’uso del velo, è di fatto fallito. Ormai più nessuno a Teheran indossa il velo: cambiando i dati demografici della società, progressivamente certe pratiche diventano costumi e si affermano. Oltre il 70% della popolazione iraniana ha meno di 35 anni. Un governo vecchio si trova a guidare un paese giovane utilizzando narrazioni – come quella del controllo morale dello spazio pubblico – incomprensibili per chi è nato dopo la Rivoluzione. La polizia morale non potrà arrestare questo cambiamento.

Eppure, il regime resiste…

Resiste perché ha ancora una sua base di consenso. La società iraniana non è omogenea, il processo di modernizzazione ha agito diversamente nelle varie aree del Paese e sulle diverse classi sociali. La stessa classe media, che è un risultato dei processi di modernizzazione avviati a seguito della Rivoluzione, è fortemente eterogenea: in parte composta da funzionari pubblici che dipendono dal governo; in parte da professionisti con poche necessità di sposare cause politiche che potrebbero minarne il benessere; in parte da persone che si sono riscattate – anche grazie all’aiuto statale – da situazioni di povertà; e in parte da studenti e intellettuali; è caratterizzata da una crescente tendenza all’individualismo e alla depoliticizzazione. Inoltre, anche una fetta importante di donne sostiene il regime, incarnandone i valori e proponendosi come modello comportamentale, a volte persino arruolandosi nella polizia morale.

Le proteste scoppiate a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini, uccisa mentre era in custodia della polizia morale per non aver indossato correttamente il velo, sono però espressione di un’esigenza di cambiamento…

Ma le alternative non ci sono. Il riformismo è morto, l’opposizione politica non c’è. Le proteste sono caratterizzate da una totale assenza di leadership che, da un lato, le rende difficili da decapitare ma, dall’altro, le priva di concreti esiti politici. A partire dal 2009 gli iraniani sono scesi in piazza a ondate cicliche per motivi diversi. Non c’è un collante ideologico che tenga insieme tutti questi eventi. Piuttosto, emerge la dimensione del corpo come spazio politico. I corpi hanno provato a riappropriarsi di pratiche proibite, come togliersi il velo. Apparire è la risposta al tentativo del regime di far scomparire dallo spazio sociale determinati gruppi – le donne, a vantaggio degli uomini; i giovani, a vantaggio degli anziani; le minoranze etniche a vantaggio della maggioranza. Mahsa Amini era tutto questo, ed è forse la trasversalità di questa morte ad aver scatenato la ribellione. In ogni caso occorre tenere a mente che il cambiamento è lento. Non dobbiamo aspettarci una rivoluzione che produca un cambiamento repentino, ma un progressivo mutare di pratiche e mentalità. Personalmente, non riesco a immaginare un Iran che tra vent’anni sia ancora guidato dal vilayat-i faqih, dal governo del giurista, per come l’aveva immaginato Khomeini.

Nel tuo libro scrivi che il controllo sul corpo delle donne è il controllo sull’intera società. Cosa significa?

La Rivoluzione ha accompagnato il Paese verso l’industrializzazione, la scolarizzazione di massa e l’uscita dall’analfabetismo, l’urbanizzazione e la crescita demografica, consentendo l’ingresso delle donne nell’università. Questo ha contribuito a mutare i rapporti di genere. Attualmente sono donne il 60% delle matricole universitarie, il 70% nelle facoltà scientifiche. Le donne sono ormai avviate lungo un cammino di indipendenza culturale e (parzialmente) anche economica. La famiglia tradizionale iraniana – tanto cara al regime – somiglia sempre più alle famiglie occidentali: il tasso di fertilità è di 1,3 figli per donna (1,2 in Italia) e si è diffusa la pratica del matrimonio bianco, espressione che indica le coppie non sposate che vivono sotto lo stesso tetto. Il tasso di divorzi è del 39% e valori come verginità, onore, famiglia appaiono del tutto secondari nell’Iran di oggi.

In questo senso, l’emancipazione delle donne ha condotto all’emancipazione dell’intera società. Ma il regime fa il doppio gioco: da un lato consente alle donne di partecipare alla vita pubblica mentre, dall’altro, impone loro di farlo indossando il velo. Il velo è quindi strumento di controllo del corpo della donna e, attraverso esso, delle generazioni future. Ecco che svelarsi non è soltanto un gesto liberatorio nei confronti di un regime opprimente ma possibilità di liberazione per la società intera.

Qui un estratto del libro apparso su Micromega, 28 giugno 2023

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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