IRAN-ISRAELE: Il teatro dell’assurdo

Quello che dovrebbe essere un conflitto di dimensioni storiche tra Iran e Israele assomiglia sempre più a un surreale gioco del nascondino, almeno finora. Gli Stati Uniti bombardano i siti nucleari dell’Iran dichiarando di aver distrutto completamente le infrastrutture nemiche, mentre l’Iran minimizza i danni sostenendo che le proprie infrastrutture nucleari rimangono quasi intatte o almeno recuperabili. L’Iran risponde colpendo una base americana in Qatar, ma non prima di aver avvisato preventivamente i “nemici giurati”. Un paradosso che raggiunge l’apice quando il presidente Trump ringrazia pubblicamente l’Iran per la “tempestiva segnalazione” dei missili in arrivo e successivamente annuncia la tregua che viene poi violata da entrambe le parti, sempre secondo il mezzo più politicamente e legalmente rilevante, Truth Social!

Questo teatro dell’assurdo della guerra Iran-Israele rivela una trasformazione fondamentale della natura stessa del conflitto contemporaneo: la guerra non è più solo uno scontro fisico, ma una performance mediatica dove la rappresentazione della realtà diventa più importante della realtà stessa. Inoltre, a livello internazionale, assistiamo a una sistematica erosione dei principi che hanno cercato di governare la guerra e i rapporti internazionali per decenni. Tel Aviv e Teheran si scambiano colpi ufficialmente mirati a obiettivi militari, ma la realtà sul campo rivela ben altro: ospedali, scuole e residenze civili vengono colpiti con regolarità, ogni volta accompagnati da elaborate giustificazioni morali o operazionali che mascherano l’inaccettabile. La “guerra preventiva” è diventata l’eufemismo perfetto per legittimare l’aggressione, trasformando l’attacco in difesa e la violazione dei diritti internazionali in necessità strategica.

Ma c’è un aspetto ancora più inquietante in questa trasformazione: il conflitto esterno serve impeccabilmente come strumento di controllo interno. La mobilitazione bellica soffoca il dissenso, riduce la critica al silenzio e cristallizza il consenso attorno a narrative semplificate di bene e male. In questo contesto, la guerra diventa un simulacro di sé stessa, uno spettacolo che serve più a controllare la popolazione domestica e l’opinione mondiale che a raggiungere obiettivi militari concreti.

Due attori, due narrazioni nell’iperrealtà

In questo specifico teatro, gli attori principali hanno sviluppato strategie comunicative radicalmente diverse negli anni, entrambe però orientate alla costruzione di quello che Baudrillard definiva “iperrealtà” – una dimensione dove i segni e le rappresentazioni sostituiscono completamente il reale.

Israele ha sviluppato un sistema di comunicazione degno di una major hollywoodiana. Giornalisti internazionali vengono immediatamente trasportati sul posto, ricevono accesso controllato alle zone colpite e possono trasmettere in diretta, nonostante sia il governo di Israele a decidere cosa i giornalisti possono vedere e cosa no – emblematico il caso di Gaza, dove i reporter internazionali non hanno accesso diretto. Tuttavia, quando si tratta di promuovere informazioni favorevoli, il paese fornisce immagini di alta qualità, conferenze stampa immediate e dati tempestivi sui feriti. I canali televisivi mondiali ospitano una rete di commentatori di Israele, esperti che veicolano la narrazione ufficiale con sofisticazione da ventunesimo secolo. Questi portavoce pro-israeliani, presenti sistematicamente nei media globali, hanno sviluppato nel tempo strategie raffinate per promuovere la retorica governativa e neutralizzare le critiche.

L’Iran opera secondo logiche diametralmente opposte: i giornalisti internazionali non possono lavorare liberamente nel paese, mentre quelli nazionali operano sotto una censura soffocante. Dall’Iran emergono solo video e foto sgranate scattate con telefoni cellulari, senza conferenze stampa o narrazioni ufficiali strutturate. Durante i giorni dell’offensiva israeliana, con internet praticamente disconnesso, erano le famiglie a tentare disperatamente di far sentire la propria voce pubblicando sui social immagini di vittime civili.

Questo rappresenta il paradosso del regime iraniano: pensando di controllare l’informazione per decenni, si è dimenticato dell’importanza del soft power nel mondo contemporaneo. L’IRIB, la televisione di stato bombardata recentemente da Israele, ha sempre raccontato una versione della realtà completamente scollegata dai fatti, quando per decenni ha cercato di distorcere il reale, additando qualsiasi forma di dissenso come tradimento del paese o dell’islam, denigrando milioni di manifestanti pacifici definendoli “ribelli sostenuti dai nemici”, trasmettendo confessioni forzate e negando sistematicamente lo spargimento di sangue nelle strade durante le innumerevoli proteste. I media ufficiali del regime dell’Iran hanno costruito un’immagine in cui la Repubblica Islamica rappresenta l’espressione autentica e indiscutibile del popolo iraniano, amato incondizionatamente dai cittadini che procedono orgogliosamente sul glorioso cammino rivoluzionario, minacciati solo da una minoranza di ingenui manipolati dai nemici della rivoluzione.

In questo scenario, la profezia di Jean Baudrillard si realizza compiutamente: viviamo nell’era dell’iperrealtà, dove la percezione sostituisce completamente la realtà attraverso simulazioni mediatiche che non hanno più alcun legame con i fatti originali. La guerra diventa spettacolo, la tragedia diventa un elemento narrativo, e la realtà scompare dietro il velo delle rappresentazioni che la sostituiscono. Entrambi i paesi, pur con metodi diversi, hanno creato le proprie simulazioni della realtà, dove i fatti vengono sostituiti da narrazioni costruite per legittimare le rispettive politiche e ideologie.

Come osservava Baudrillard, “non si tratta più di imitazione né di duplicazione. Si tratta di sostituire i segni del reale al reale, creando un iperreale al riparo dall’immaginario che lascia spazio solo alla ricorrenza orbitale dei modelli.

Regime change: illusione o strategia

L’ipotesi di rovesciare dall’esterno i governi dell’Iran ritorna ciclicamente nel dibattito. La storia delle interferenze esterne in Iran è lunga e complessa: dal colpo di stato anglo-americano del 1953 contro il governo democraticamente eletto di Mohammad Mosaddegh, colpevole di aver nazionalizzato il petrolio fino ad allora controllato dalla compagnia britannica Anglo-Persian Oil Company, al sostegno incondizionato a Saddam Hussein negli anni ’80 durante la guerra Iran-Iraq, fino ai sabotaggi e agli attacchi militari contemporanei.

Una transizione forzata dall’esterno non porterebbe democrazia, bensì caos, spingendo paradossalmente l’Iran – e potenzialmente altri paesi della regione – verso quello sviluppo nucleare che si intende evitare.

Il regime dell’Iran, dopo decenni di fallimenti interni, promesse non mantenute e una retorica estera inutilmente minacciosa, con le prigioni colme di attivisti, avvocati, giornalisti e artisti, ora rischia di perdere anche tutto ciò che aveva costruito a livello militare, soprattutto negli ultimi vent’anni. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, questa capacità militare rappresentava la leva principale con cui il regime riusciva a contenere il dissenso interno, presentandosi come una potenza regionale temibile, disposta persino a sparare sui propri manifestanti. Ora, con i centri militari e i simboli decennali di questo potere distrutti davanti agli occhi di tutti, durante la guerra Iran-Israele, il regime potrebbe trovarsi ancora più vulnerabile di fronte alle prossime ondate di proteste. Non si tratterebbe di manifestazioni orchestrate dall’esterno, successive a un attacco militare e prive di obiettivi chiari, ma di una volontà interna alimentata da un elenco infinito di richieste, speranze e paure. La storia contemporanea iraniana dalla fine dell’Ottocento dimostra che tali proteste non sono affatto rare e potrebbero esplodere da un momento all’altro.

Resta ancora un elemento quasi satirico da tenere in considerazione, degno del teatro dell’assurdo che caratterizza l’intera situazione: l’Iran si è qualificato per i Mondiali USA 2026, mentre Israele cerca ancora la qualificazione. L’unico paese punito come aggressore imperdonabile rimane la Russia, esclusa per aver violato la sovranità ucraina. Il teatro dell’assurdo non è più solo una forma artistica, ma il modus operandi delle questioni della nostra epoca.

Foto: www.bbc.com

Chi è Emad Kangarani

Nato nel 1985 a Teheran, giornalista e scrittore, nel 2011 si trasferisce a Milano per continuare gli studi presso l'università Cattolica. Al momento è docente d'inglese in una scuola superiore a Milano. Collabora con East Journal dal settembre 2022 dove si occupa dell'Iran

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