murale Jorit Donbass

UCRAINA: Il murale di Jorit e l’ignoranza sul Donbass

Questo articolo è stato pubblicato anche su Valigia Blu, che ringraziamo dell’attenzione e della collaborazione

Un artista napoletano, Ciro Cerullo in arte Jorit, ha diffuso sui social l’ultimo murale realizzato. Il volto di una bambina con negli occhi i colori della bandiera della Repubblica popolare di Donec’k e alle spalle bombe con la scritta “NATO”. Il murale è stato realizzato a Mariupol’, città simbolo della resistenza ucraina, attualmente sotto occupazione russa. A commento dell’immagine, Cerullo scrive: “La resistenza che avremmo dovuto appoggiare è quella del popolo del Donbass che lotta da otto anni per liberarsi da un regime: quello di Kiev che di democratico oramai non aveva più niente”. Sul fatto che l’immagine sia forse un plagio, sul fatto che l’opera sia stata realizzata con il consenso delle autorità di occupazione russe, hanno già detto altri. Quello che interessa qui è l’ignoranza della verità dei fatti, della verità storica sul conflitto in Donbass andato in scena tra il 2014 e il 2015, e delle sue conseguenze. Una verità che è stata ricostruita in modo ormai piuttosto preciso da parte di numerosi ricercatori. Proviamo a darne conto, citando qualche fonte, anche a beneficio di Cerullo. Chiunque potrà andarsi a leggere le fonti e verificare da sé quanto affermato in questo – necessariamente lungo – articolo.

Come scoppia davvero la guerra in Donbass?

La guerra in Donbass è una parte del più ampio conflitto in corso tra Russia e Ucraina, iniziata nel marzo 2014 con alcune proteste da parte di cittadini russofoni delle regioni di Donec’k e Luhans’k, collettivamente definite Donbass. Queste proteste restituivano il disagio della popolazione locale, orfana di rappresentanza politica all’indomani della fuga del presidente Viktor Janukovyč, e registravano il malessere dell’oligarchia locale, in particolare di Rinat Achmetov, finanziatore di Janukovyč e forte sostenitore delle proteste. Janukovyč nasce come criminale comune [1], due volte arrestato per rapina, deve la sua carriera politica al potente oligarca Rinat Achmetov che ne farà il referente degli interessi dell’oligarchia del Donbass e dei suoi referenti in Russia.

Le iniziali manifestazioni di dissenso della popolazione locale furono in buona misura genuine. A marzo 2014 si registrarono i primi scontri a Kharkiv, Donec’k e Luhans’k, con l’occupazione dei municipi e delle istituzioni locali. Secondo gli osservatori OSCE [2] le forze di polizia non intervennero o si mostrarono solidali con i manifestanti. Le proteste erano infatti anche espressione dei timori degli oligarchi del Donbass [3], sostenitori del regime di Janukovyč e preoccupati di perdere influenza politica ed economica sul Paese.

Ben presto però le manifestazioni furono infiltrate da agitatori provenienti dalla Russia [4] i quali guidarono all’occupazione manu militari di municipi e istituzioni locali, issando bandiera russa. Le istituzioni occupate e i loro nuovi rappresentanti invocarono l’intervento russo a difesa della popolazione locale – analogamente a quanto accaduto in Crimea – mentre milizie paramilitari furono rapidamente costituite avviando un conflitto con le autorità di Kiev.

Le milizie si componevano in larga parte di personale che arrivava dalla Russia [5] la cui presenza segnava un salto di qualità nei disordini che stavano scoppiano in Donbass. Le tecniche di combattimento, le armi a disposizione, dimostravano una professionalità non comune tra la popolazione civile. Il primo leader della Repubblica separatista di Donetsk, Aleksander Borodai, in carica dal maggio 2014, è un cittadino russo nato a Mosca, già vicedirettore del FSB (il servizio segreto russo) ed è oggi membro della Duma, il parlamento russo, deputato di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. Igor Girkin fu invece colui che guidò l’attacco a Sloviansk: ex-ufficiale del FSB, poi noto col nome di Strelkov, era già attivo in Cecenia e Transnistria nella conduzione di operazioni di intelligence a favore delle forze russe.

Negare il coinvolgimento russo fin dalle prime fasi del conflitto appare difficile, benché il Cremlino abbia sempre cercato di descrivere quanto accadeva in Donbass come il prodotto di una genuina sollevazione popolare o come una «guerra civile» all’interno dello Stato ucraino. Quella della «guerra civile» si dimostra invece una falsità, poiché non fu la popolazione civile a sollevarsi ma forze paramilitari provenienti dall’estero – anche con la complicità di oligarchi locali – a occupare le principali città.

Cosa accadde a Mariupol’?

Tra le città maggiormente coinvolte ci fu anzitutto Sloviansk, presa dai filorussi il 12 aprile 2014 grazie a un’operazione condotta dal già citato Igor Girkin. Sloviansk fu ripresa dagli ucraini nel luglio del 2014 dopo un assedio che causò la fuga di circa ventimila persone. Sorte diversa per Kramatorsk e Horlivka, entrambe attaccate dai filorussi il 12 aprile, vennero conquistate anche con la complicità della polizia locale.

Mariupol’ venne attaccata il 13 aprile, il locale municipio fu dato alle fiamme e le forze di polizia, unitamente alla Guardia Nazionale, vennero respinte dai filorussi a dimostrazione di una professionalità militare assai difficile da attribuire a semplici cittadini in armi. La situazione si rovesciò il 16 maggio quando operai della Metinvest, azienda di Rinat Achmetov specializzata nella lavorazione dell’acciaio che controllava – tra gli altri – anche gli impianti dell’Azovstal’, marciarono verso gli edifici governativi di Mariupol’ occupati dai filorussi, ricacciandoli indietro grazie al supporto delle forze di polizia locali. Fu il primo segnale di come Rinat Achmetov, potentissimo oligarca del Donbass, inizialmente coinvolto nel finanziamento delle milizie filorusse, avesse deciso di cambiare casacca, schierandosi col governo di Kiev. Sottolineiamo questo fatto: furono gli operai di Mariupol’ a cacciare i filorussi. Bisogna dirlo a Ciro Cerullo.

La riposta ucraina

La risposta militare ucraina fu inizialmente affidata a battaglioni paramilitari costituiti da volontari provenienti perlopiù da ambienti nazionalisti o di estrema destra finanziati da oligarchi pro-governativi, come Ihor Kolomoysky, magnate ebreo con cittadinanza ucraina e israeliana. Quest’ultimo ha sostenuto economicamente la formazione dei battaglioni Aidar, Dnipro, Donbass e forse anche Azov, al fine di contrastare un’occupazione militare che avrebbe leso i suoi interessi in Donbass. Non lo fece per patriottismo, né per ideologia (un magnate ebreo che finanzia neonazisti è un evidente controsenso) ma per interesse personale. Anche quando lo Stato ucraino, uscendo dal caos post-rivoluzionario, integrò questi battaglioni all’interno delle forze armate regolari, fu piuttosto arduo prenderne il reale controllo. Le milizie si mossero in sostanziale autonomia, senza sottostare agli ordini di Kiev, almeno fino al 2015.

Tutti filorussi?

La proclamazione di indipendenza delle Repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k, rispettivamente il 7 e il 27 aprile 2014, vennero suffragate nel mese di maggio da un referendum confermativo che registrò il 90% dei consensi. Un dato che lascerebbe supporre la piena adesione della popolazione locale alle istanze separatiste, se non all’integrazione con la Russia. Ma è davvero così?

È diffusa la convinzione che in Ucraina orientale la maggioranza della popolazione sia russofona e per questo sostenga apertamente il secessionismo del Donbass e l’annessione alla Russia. Anzitutto, la maggioranza della popolazione delle regioni orientali non è russofona. Ad eccezione della Crimea, dove rappresentava il 58% del totale, la componente russofona è significativa ma non maggioritaria negli oblast’ di Donetsk (38.2%), Lugansk (39%), Kharkiv (25.6%), Zaporizhia (24.7%) e Odessa (20.7%) [6]. Un sondaggio [7] del Kyiv International Institute of Sociology condotto nel marzo-aprile 2014, nel pieno delle manifestazioni filorusse, mostra come il sostegno all’integrazione con la Russia fosse intorno al 30% mentre un’altra indagine [8], condotta dall’IRI, testimoniava il malessere della popolazione locale che vedeva nella Rivoluzione di Maidan una minaccia per i cittadini russofoni (30%) e un colpo di Stato (60%). Tuttavia, il favore per l’integrazione con la Russia non era elevato: 33% a Donetsk, 24% a Lugansk e Odessa, 15% a Kharkiv, mostrando come anche nelle regioni orientali del Paese sussistessero grandi differenze e non fosse affatto vero, come si è poi affermato e si continua a ripetere da più parti, che nell’est dell’Ucraina la popolazione fosse largamente favorevole all’integrazione con la Russia.

Genocidio della popolazione russofona

La gran parte delle vittime si ebbe nel periodo tra il 2014 e il 2015. Secondo le Nazioni Unite si tratta di circa 14 mila morti [9] di cui 3404 civili, 4400 circa tra le fila ucraine, 6517 tra i miliziani filorussi. Una cifra in larga parte composta da militari. Le circa tremila vittime civili non rappresentano una cifra tale da sostenere le accuse di genocidio mosse da Mosca nei confronti delle autorità ucraine, anche in considerazione del fatto che le due regioni di Donec’k e Luhans’k contano insieme più di sei milioni di abitanti.

Secondo le cifre delle Nazioni Unite, le vittime salgono a quasi 30mila se si contano feriti, persone rapite o detenute ingiustamente, vittime di abusi sessuali, oppure oggetto di altre violazioni come il furto della casa o delle proprietà, estorsioni e maltrattamenti. Queste violenze – in alcuni casi veri e propri crimini di guerra – sono ascrivibili a entrambe le parti in conflitto, non solo a quella ucraina. Nel nostro libro, Ucraina, alle radici della guerra, riportiamo tutti i casi registrati di crimini di guerra compiuti dalle milizie paramilitari russe e ucraine.

Che cos’è la “minoranza russa” dell’Ucraina? 

È convinzione diffusa che la minoranza russofona dell’Ucraina sia qualcosa di stabile, facilmente enumerabile, geograficamente definito. Non è così. Nel già citato censimento del 2011, il 77.8% della popolazione si autodefiniva ucraina, il 17.3% russa, mentre altri gruppi nazionali erano tutti sotto l’1% (tatari, bulgari, ungheresi, ebrei, bielorussi, moldavi). A livello geografico, la popolazione russa era concentrata nel sud-est del Paese ma solo in Crimea essa rappresentava la maggioranza (58%) mentre in altre cinque regioni, come Donetsk (38.2%), Lugansk (39%), Kharkiv (25.6%), Zaporizhia (24.7%) e Odessa (20.7%) la popolazione russa superava il 20%. A Kiev il 13% della popolazione si definiva russa.

Oltre all’autoidentificazione etnica, però, il questionario poneva domande inerenti alla lingua. Il 67.5% della popolazione aveva quindi scelto l’ucraino come «lingua nativa», mentre circa il 30% il russo. A livello geografico, il russo era la lingua dominante in sole tre regioni (Crimea, Donec’k e Luhans’k) mentre in altre sei superava il 20% [10]. A Kiev il russo è lingua nativa per il 32% della popolazione a fronte del 27% dell’ucraino.

Ecco, adesso sovrapponiamo le due categorie. Emerge che il 30% della popolazione parli russo come «lingua nativa» ma solo il 17,3% si definisca di etnia russa. Quindi c’è un 13% circa di russofoni che si definiscono etnicamente ucraini. Sorprendente, vero? Ora guardiamo meglio il dato linguistico. A Kiev il 40% della popolazione è bilingue [11] – cioè la maggioranza – e non ha indicato nessuna delle due lingue come «lingua nativa». Il bilinguismo perfetto è un dato tipico dell’Ucraina. Il 29% della popolazione nella regione di Donec’k è bilingue; il 31% in quella di Odessa; il 38% a Zaporizhzhia [12]. Di fronte a questi dati è difficile definire in modo univoco cosa sia la “minoranza russa” di cui tanto si parla. Si tratta perlopiù di persone bilingui, che in parte si definiscono ucraine anche se parlano russo, e che non vivono l’identità linguistica e culturale come qualcosa di rigido. Definirle in modo rigido serve invece alla retorica del Cremlino per rivendicare il proprio diritto “naturale” all’occupazione di quelle regioni.

Le repubbliche del Donbass sono davvero “popolari”?

Le autoproclamate repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k, stabilite in Donbass dai separatisti filorussi, hanno suscitato la simpatia di coloro che vi hanno visto l’espressione della resistenza della popolazione locale, del “popolo” genuino contro il “regime di Kiev”. Eppure, a partire dal 2014, quasi due milioni di persone sono emigrate dai territori occupati del Donbass verso quelli controllati dal governo di Kiev.L’OHCHR ha denunciato una crisi alimentare nel biennio 2014-2016 aggravata dal rifiuto delle forze separatiste di accogliere aiuti da parte ucraina. Il World Food Programme ha indicato in circa trecentomila le persone soggette a prolungata mancanza di cibo nei territori occupati.

In Donbass i leader separatisti hanno agito come veri e propri boss mafiosi [13], imponendo la propria legge con la violenza. Tra i più noti vale la pena citare Aleksandr Borodai, primo capo della repubblica di Donetsk, che oggi siede nel parlamento russo, e Aleksandr Zacharčenko, capace di costruirsi un piccolo impero estorcendo denaro a ristoranti e supermarket, prima di essere ucciso nel 2018 da un’autobomba piazzata da qualche rivale interno.

Nel momento in cui le repubbliche separatiste si sono istituzionalizzate, figure dal passato criminale sono diventate protagoniste della vita politica. Un importante trafficante di tabacco, noto come Prokop, ha fatto eleggere suoi fedelissimi al parlamento di Donec’k, arruolandone altri nelle truppe separatiste. Un altro gangster, conosciuto come Chort, attivo nel traffico di droga, si è reinventato signore della guerra fondando l’Esercito russo ortodosso, sigla attiva anche nell’assedio di Mariupol’ tra febbraio e maggio 2022 [14]. Un vasto sottobosco criminale è cresciuto all’ombra delle repubbliche separatiste dedicandosi al traffico di narcotici, tabacco, alcolici, ma anche al riciclaggio di denaro sporco. Gruppi di fuoco e bande criminali sono entrate a far parte delle milizie filorusse, vessando la popolazione con la certezza dell’impunità. Più che repubbliche popolari erano repubbliche criminali.

Amnesty International ha documentato diversi di questi casi [15]. Il più noto è forse quello di Marina Cherenkova, attivista di Cittadinanza Responsabile, un’associazione di Donec’k che forniva aiuto materiale alle persone residenti nelle repubbliche separatiste e, in particolare, lungo la linea di contatto, dove granate e combattimenti infuriavano ogni giorno, bruciando case e palazzi e lasciando le persone intrappolate in un limbo da cui non potevano uscire. Catturata con l’accusa di spionaggio, è stata detenuta per settimane prima di essere rilasciata. La sua testimonianza è stata utile a descrivere la quotidiana scomparsa di persone (preti, studenti, amministratori pubblici, politici locali, docenti e giornalisti) da Donec’k, senza che nessuno sappia più nulla di loro. È il caso di Ihor Kozlovskyi, rapito il 28 gennaio 2016, o dei minatori della miniera di carbone Makiiv, che hanno scioperato contro il mancato pagamento degli stipendi, arrestati con l’accusa di sedizione e istigazione alla rivolta.

Gli operai, ancora loro, che non vengono pagati e che hanno fame. Gli operai che scioperano e vengono arrestati. Non certo il paradiso “dei lavoratori” che alcuni decantano. Questa è la resistenza del Donbass che avremmo dovuto sostenere. Una resistenza non verso il governo di Kiev ma contro i caporioni locali, criminali comuni e agenti del Cremlino, che hanno affamato e vessato la popolazione locale prima che le bombe russe facessero il resto.

Note al testo

[1] Ivanna Gorina, Criminal record of Yanukovych not purged, in Rossiyskaya Gazeta, 13 luglio 2005

[2] OSCE, Human Rights assessment mission in Ukraine, 12 maggio 2014

[3] S. Kudelya, Domestic sources of the Donbas Inurgency, PONARS Eurasia, 2014

[4] K. Pishchikova, The conflict in Donbas, evolution and consequences, in Eurasiatica n. 14, Edizioni Università Ca’ Foscari, Venezia 2019, pp.75-94

[5] K. Pishchikova, The conflict in Donbas, evolution and consequences, cit.

[6] Dati dal Censimento della popolazione ucraina, 2001

[7] Kyiv International Institute of Sociology, The views and opinion of South-Eastern regions residents of Ukraine – April 2014

[8] International Republican Institute, Public opinion survey residents of Ukraine, 14 – 26 March 2014

[9] Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Conflict-related civilian casualties in Ukraine, 27 gennaio 2022

[10] O. Bondarenko, M. Zola. In Ucraina è in corso un conflitto etnico? in Ucraina, alle radici della guerra, Paesi ed., 2022

[11] Kiev: the city, its residents, problems of today, wishes for tomorrowZerkalo Nedeli, 29 aprile – 12 maggio 2006

[12] International Republican Institute, Ukrainian Municipal Survey, March 2–20 2015, 27 maggio 2015

[13] Amnesty International, You don’t exist. Arbitrary detention, enforced disappearances and torture in Eastern Ukraine, 2016

[14] Unian Information Agency, From Kremlin-armed Donbas militants to millionaire criminal bosses, 28 agosto 2015

[15] D. Klein, Report: In Crimea and the Donbas, Organized Crime Reigns Supreme, in Organized Crime and Corruption reporting project (OCCRP), 15 luglio 2022

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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