Slobodan Milošević

SERBIA: A vent’anni dal 5 ottobre 2000. Intervista a Jasmina Tesanovic

Oggi ricorrono i vent’anni dalla manifestazione che costrinse Slobodan Milošević ad abbandonare il potere in Serbia. Un evento che ha segnato la storia del paese, chiudendo un decennio di guerre che avevano portato alla disgregazione della Jugoslavia. Nella seconda metà degli anni Novanta, dopo anni di corruzione e clientelismo, Milošević dovette affrontare un malcontento popolare sempre più diffuso, alimentato dalle forze nazionaliste capaci di imporne la destituzione anche attraverso le proteste di piazza.

Ne abbiamo parlato con Jasmina Tešanović, scrittrice, regista, attivista femminista e pacifista serba. Durante la guerra in Kosovo nel 1999 ha scritto un diario, tradotto in italiano con il titolo Normalità. Operetta morale di un’idiota politica (Fandango Libri). Sempre in italiano è uscito, nel 2014, La mia vita senza di me. Memorie dai Balcani di una donna sempre disobbediente (Infinito Edizioni). Jasmina fa parte delle associazioni femministe “Women in Black” e “Code Pink” e ha animato i movimenti pacifisti degli anni Novanta. Il 5 ottobre 2000 era presente in quella piazza con le sue aspettative e speranze.

 

Cominciamo parlando con la Jasmina Tešanović di vent’anni fa, «quell’idiota politica che non vede opzioni con cui identificarsi» per citare le parole del suo Diario. Sono gli anni della guerra in Kosovo e dei bombardamenti NATO sulla Serbia. Può spiegare perché ai tempi si definiva “idiota politica”?

Ho vissuto gran parte della mia vita fuori dalla Serbia e il principio di appartenenza nazionale è una cosa che ho rifiutato prima ancora di crescere. Mi consideravo un’idiota politica perché non volevo essere una patriota né essere considerata una traditrice. Gli idioti politici erano tutti quelli che erano esclusi dal discorso pubblico, praticamente tutte le donne e il 90% degli uomini. Purtroppo erano pochissimi quelli che capivano la situazione. I miei genitori, ad esempio, erano comunisti. Mia madre a 17 anni era andata a fare la partigiana, però non capiva quello che stava succedendo in quel momento. Noi non avevamo un’informazione giusta e corretta. Per questo mi sentivo un’estranea a casa mia.

Quelli sono anche gli anni in cui l’opposizione a Milošević riprendeva coraggio dopo le proteste del 1996-97. Lei faceva parte di un gruppo pacifista, le “Women in black”. Quale fu il ruolo delle donne nelle mobilitazioni contro la guerra in Jugoslavia e il governo Milošević?

Tutti i movimenti pacifisti nell’ex Jugoslavia sono stati fatti dalle donne. Nel 1990 ci ritrovammo in cinquanta in una cantina nel centro di Belgrado. Avevamo perso tutto: il lavoro, la pensione dei genitori, gli uomini che venivano mobilitati per la guerra. Le “Donne in nero” appaiono per la prima volta nel 1991. Nel 2004 erano candidate al premio Nobel per la pace. Noi a Belgrado proteggevamo i nostri mariti, i figli che disertavano la guerra. Solo dopo ho scoperto che l’80% dei giovani belgradesi erano disertori. Per questo noi donne eravamo un obiettivo del regime. Io potevo muovermi o stare ferma, loro sapevano già dov’ero. In generale noi serbi eravamo considerati gli aggressori, ma il movimento pacifista in Serbia è stato il più grande di tutta la regione. Le donne hanno avuto un ruolo centrale, costruendo una campagna politica porta a porta in tutto il paese. L’esito del voto del 24 settembre [inizialmente non riconosciuto da Milošević, ndr] è attribuibile anche a questa campagna. La nostra lotta non era finanziata da nessuno, non apparteneva a nessun partito, era una cosa spontanea.

Quel giorno, durante l’assalto al parlamento, lei era per le strade di Belgrado. Può descriverci le sensazioni di quel momento? Sentivate il peso della Storia sulle spalle?

Noi vivevamo la Storia già da un po’ e quel momento non era diverso dagli altri. C’erano state altre occasioni che potevano finire come il 5 ottobre. Ai tempi avevo una bambina piccola che ogni volta che uscivo di casa mi diceva “mamma, però torna”. Io non ero conscia che fosse quello il giorno. Il 24 settembre è stata la vera giornata in cui Milošević ha perso. Lui faceva finta di aver vinto, ma i brogli erano evidenti. Poi c’era Zoran Đinđić [primo ministro assassinato nel 2003, ndr] che era riuscito a conquistare l’appoggio dei militari. Il 5 ottobre sono uscita di casa e ho visto sempre più gente. C’erano gli elicotteri, gli aerei, c’era di tutto. I militari si rifiutarono di intervenire e io mi ritrovai realmente in seconda fila. In prima fila c’erano i minatori. Centinaia di migliaia di persone tranquille, che stavano in piazza senza muoversi. Fu un momento eroico. Forse doveva capitare quel giorno, non lo so, ma non era una cosa che noi pensavamo accadesse.

Quella fu una grande giornata per voi. Cosa vi aspettavate sarebbe successo dal giorno successivo?

A un certo punto ci fu l’annuncio che Milošević riconosceva la sconfitta e abbandonava il potere. In quel momento eravamo vincitori. C’era stata una sola vittima, una ragazza di nome Jasmina come me. Ricordo che persi i miei occhiali di fronte al parlamento. Mi avviai a casa senza occhiali, ma poi ritornammo in piazza per ripulirla. Volevamo lanciare il messaggio che non avremmo lasciato la nostra città nel caos. E io ho pure ritrovato i miei occhiali! La cosa divertente è che c’erano le tv straniere che mi riprendevano e mi descrivevano come una saccheggiatrice. Subito dopo siamo andati nella sede del governo locale e lì c’era Đinđić impaurito da morire. Sua moglie era convinta che avrebbero potuto sparargli in qualsiasi momento. Però stavamo lì, eravamo tutti esposti e non ce ne fregava nulla. Non sono mai stata così vicino alla morte senza saperlo. Ci aspettavamo veramente un futuro meno terribile.

Passiamo la parola alla Jasmina Tešanović di oggi. La fine del governo Milošević veniva presentata come la panacea di tutti i mali, come l’apertura di una nuova era di democrazia e libertà. A distanza di vent’anni, crede sia stato davvero così?

Io non vivo in Serbia da tempo e non mi permetto di esprimermi troppo su questo punto perché quando stavo lì odiavo chi veniva da fuori e ci giudicava. Mi sento di rispettare chi vive lì. Quello che capisco parlando con gli amici e le amiche è che la situazione è dura. Al governo c’è la destra, gli stessi che erano parte del sistema di Milošević. Hanno solo cambiato gli abiti. Quando torno a Belgrado però noto che ci sono dei miglioramenti, la città si sta sviluppando.

Da ormai 8 anni il paese è dominato dal presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić. In molti lo considerano un autocrate, per certi aspetti anche peggio di Milošević di cui fu ministro dell’Informazione proprio durante la guerra in Kosovo. Come vede la Serbia di oggi?

Ho passato il lockdown in Serbia e ho capito che c’è senz’altro un regime dittatoriale, non come quello di Hitler ma alla Orban. Potrei subito dirti che Vučić mi fa schifo e che se dovessi vivere lì probabilmente sarei per strada a urlare contro di lui. Adesso però dico una cosa che mi fa sentire male, ma ci sono momenti in cui penso che lui, guidato da questa ambizione senza limiti, stia provando a essere il nuovo Tito capace di muoversi tra i due blocchi.

Cosa pensa del ruolo dell’Unione Europea? Cosa le rimprovera e in cosa invece la elogia?

Io sono contenta che l’Unione Europea esista perché può salvaguardarci da certi abusi. Almeno un po’, non troppo. L’idea di un’Europa unita è un bellissimo concetto e io non vorrei tornare indietro. Ci sono stati momenti, però, in cui non ha funzionato per nulla, come durante la guerra nei Balcani o come all’inizio di questa pandemia. Per quanto riguarda la Serbia, se noi non avessimo avuto il Tribunale dell’Aja molti nostri criminali di guerra sarebbero ancora in giro. Un centro di potere che va al di là dei confini nazionali è necessario perché non sempre le nazioni ragionano bene. È estremamente positivo avere un punto di riferimento che non sia nazionale.

 

Foto: ZELJKO SAFAR/AP

Chi è Marco Siragusa

Nato a Palermo nel 1989, ha svolto un dottorato all'Università di Napoli "L'Orientale" con un progetto sulla transizione serba dalla fine della Jugoslavia socialista al processo di adesione all'UE.

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