Dal 2016, il mondo del petrolio, l’oro nero motore dell’economia mondiale, non è più quello di prima. Tutto nasce il primo gennaio 2017, quando l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) attua un taglio alla produzione di 1,2 milioni di barili al giorno (mbg). L’obiettivo è far rialzare le quotazioni precipitate a fine 2016 sotto i 30 dollari al barile, causa l’eccesso di offerta sul mercato. L’esempio viene seguito da altri paesi esterni al cartello. Agli 1,2 milioni di barili se ne aggiungono così ulteriori 600 mila, di cui la metà in capo alla Russia. A fronte di un mercato sempre più competitivo e imprevedibile, per Mosca – maggiore esportatore non-OPEC a livello mondiale – è fondamentale garantire il coordinamento delle politiche energetiche con gli paesi produttori, tra i quali Riyadh gioca la parte del leone.
Motivo per cui Putin, già in passato, aveva promosso la necessità di estendere l’accordo di produzione ad altri 10 paesi per contenere il livello generale dei prezzi ed evitare vertiginose cadute che potessero mettere a repentaglio le economie produttrici. Una decisione, quella del Cremlino, figlia dell’esperienza di fine 2014, quando l’Arabia Saudita provocò un significativo ribasso dei prezzi. Causa del tracollo, la posizione del vice-primo ministro, nonché erede al trono, Mohammed bin Salam, che decise di mantenere inalterata la produzione di greggio, nonostante il manifesto aumento dell’offerta globale connesso al boom dello shale oil nordamericano. Le intenzioni di Riyadh erano quelle di far crollare i prezzi e garantirsi quote di mercato, sfavorendo quindi i produttori di idrocarburi statunitensi e canadesi. Nel giro di 24 mesi, i prezzi registrarono una contrazione record arrivando alla cifra di 31 dollari al barile.
Mercati sotto assedio
Dopo due anni di fluttuazioni altalenati, lo scorso gennaio, i 24 paesi del neonato Opec Plus concordano di tagliare nuovamente la produzione di 1,2 mbg. Questa volta l’obiettivo è calmierare i prezzi tra i 50 e i 60 dollari al barile, malgrado la stagnante domanda. Uno sforzo notevole ma insufficiente. Ad aggravare ulteriormente la situazione, il nuovo anno si apre con i prezzi al ribasso, complice l’epidemia di coronavirus che, nel giro di poche settimane, esplode su scala mondiale e fa collassare le principali piazze finanziarie. Lo shock simmetrico che ne deriva è senza precedenti.
Dinanzi al dilagare della crisi, Riyadh suggerisce di diminuire la produzione di ulteriori 1.5 mbg, arrivando a un totale di 3.6 mbg. Una proposta alla quale Mosca si dimostra riluttante, chiarendo fin da subito la sua ambivalenza. Il contrasto di interessi è evidente: se da un lato l’obiettivo dei sauditi è giungere a un accordo per evitare una possibile contrazione di mercato, agli occhi del Cremlino tale eventualità rappresenta l’occasione giusta per costringere l’industria dello shale oil statunitense – particolarmente vulnerabile alle cadute del prezzo del petrolio – a una resa. L’atteggiamento ha il sapore di una rappresaglia contro le sanzioni americane imposte all’industria energetica russa, le quali potrebbero mettere a rischio il futuro del progetto Nord Stream 2. Assecondare Riyadh significherebbe quindi gettare un’ancora di salvezza all’avversario. Il “niet” di Putin mette in questione la credibilità del cartello Opec e segna l’inizio di una guerra sui prezzi con l’Arabia Saudita.
Russia e Arabia Saudita: una guerra all’ultimo prezzo
Sfruttando la sua posizione di produttore leader a livello mondiale, la reazione del principe bin Salam non si fa attendere. Riyadh incrementa le estrazioni a un ritmo senza precedenti, provocando il più drammatico crollo dei prezzi dallo scoppio della seconda Guerra del Golfo (-31%). L’intenzione è riconquistare le fette di mercato perdute nei mesi scorsi e garantirsi la liquidità, di cui il paese necessita per promuovere le riforme di diversificazione energetica previste dal programma di sviluppo socioeconomico Saudi Vision 2030.
Di fronte a una domanda inesistente, causa il blocco delle attività imposto dalle restrizioni per fronteggiare la diffusione del coronavirus, i mercati vengono inondati da fiumi di greggio. Una sovrabbondanza che, non riscontrando assorbimento, provoca un ulteriore crollo dei prezzi. Ci si chiede dunque se la strategia di Riyadh sia sostenibile per le stesse casse del regno, considerando soprattutto che il break-even price fiscale del paese – ovvero, il costo minimo di produzione per garantire un pareggio di bilancio – sia quasi il triplo di quello russo, che si aggira intorno ai 25-30 dollari al barile. Come affermato dal ministro delle finanze russo, Anton Siluanov, le ingenti riserve di valuta accumulate dal paese, di fatto, permetterebbero a Mosca di mantenere un regime di produzione a basso prezzo per quasi un decennio.
Vincitori e vinti
È dunque la Russia la maggior beneficiaria di questa guerra? Non proprio: i rischi ci sono anche per Mosca, e non sono pochi. Il paese, che versa in una situazione economica stagnante, necessita infatti di due bisogni primari: favorire la spesa fiscale e promuovere gli investimenti per modernizzare le infrastrutture, in modo particolare quelle legate al settore energetico per l’esplorazione dei giacimenti strategici nell’Artico. Investimenti che dipendono in parte dai prestiti di tecnologie occidentali, sempre più esigue a causa delle sanzioni in vigore. Prezzi costantemente bassi potrebbero dunque vanificare gli sforzi fatti fin ora dalla leadership russa: un pericolo troppo grande.
Dopo attente considerazioni economiche e politiche, giovedì 9 aprile, i membri dell’Opec Plus si siedono al tavolo dei negoziati per concordare un taglio alla produzione ed evitare, nell’interesse di tutti, il collasso del settore petrolifero. Dopo lunghe trattative, finalmente, il compromesso sul piano globale: un taglio record di 10 mbg per due mesi, che andrà gradualmente ad allentarsi (8 mbg da luglio a settembre e 6 mbg da gennaio 2021). Secondo indiscrezioni, il calo della produzione ammonterebbe solo al 10% della fornitura mondiale – di gran lunga inferiore allo stimato crollo di domanda legato crisi del coronavirus – ed è dunque improbabile che possa arginare il massiccio calo dei prezzi degli ultimi mesi. Nondimeno, l’accordo porta a un riscontro positivo: la fine della guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia.
Finalmente un accordo (?)
E quando ogni screzio sembrava risolto, il Messico entra in scena, puntando i piedi e avanzando riserve sull’accordo, defilandosi, di fatto, dallo stesso. Tagli sui generis, è quanto lascia intendere la ministra dell’energia Rocìo Nahle, affermando che il paese provvederà a una riduzione di soli 100.000 bg fino a giugno, invece dei 400.000 richiesti. Un atteggiamento sgradito al direttore esecutivo dell’Agenzia International dell’Energia (IEA), Faith Birol, e al segretario generale OPEC, Mohammed Barkindo, il quale, in occasione del G20 Energia straordinario all’indomani del vertice Opec Plus, urge i giganti del greggio a trovare un compresso. Scopo: salvare l’economia mondiale e la stabilità finanziaria. Come? Un taglio globale alla produzione e nuove collaborazioni tra paesi produttori e consumatori, tra cui l’accumulo di riserve strategiche volto a ritirare dal mercato quanto più surplus di greggio possibile.
Le trattative si concludono con un risultato storico: Stati Uniti schierati a fianco di Russia e Arabia Saudita a salvataggio di un’industria petrolifera prossima al collasso. Il ministro dell’Energia russo Alexandr Novak afferma che entrambi i paesi, in aggiunta al taglio da 10mbg deciso in seno all’Opec Plus, ridurranno la produzione di ulteriori 5 milioni di barili al giorno. Un impegno la cui realizzazione dipenderà tuttavia dall’esito dell’alterco con il Messico, che gli Stati Uniti si sono offerti di aiutare garantendo un generoso contributo di ulteriori 250.000 barili al giorno.
Il piano globale è riuscito solo in parte
Dopo un’estenuante videoconferenza durata fino a tarda notte, l’esito del G20. “Per affrontare queste sfide, ci impegniamo ad adottare tutte le misure necessarie e immediate per garantire la stabilità del mercato dell’energia”, hanno affermato i ministri in una dichiarazione congiunta rilasciata sabato mattina. Nonostante la dichiarazione non faccia riferimento a tagli specifici, segnala che l’accordo Opec Plus è il tracciato da seguire se si vuole ridurre l’offerta. Per far fronte della crisi coronavirus e continuare a monitorare la risposta dell’organizzazione alle sfide globali del mercato dell’energia, si prevede anche l’istituzione di un “Focus Group” preposto a sviluppare azioni di risposta correttive.
Il più grande accordo nella storia dell’OPEC, alla fine, sembra avere grandi difficoltà a fermare la rotta dei mercati petroliferi provocata dalla devastazione economica della pandemia. “La Russia chiuderà molto in produzione quest’estate, sia che ci sia stato un accordo o meno”, ha dichiarato Bob McNally, presidente della società di consulenza Rapidan Energy Group. La decisione di accettare i tagli alla produzione segna un’inversione di tendenza inaspettata per Mosca dopo la conclusione dell’accordo con Riyadh a marzo, quando il Cremlino aveva scommesso che le sue enormi riserve valutarie gli avrebbero permesso di cavalcare la tempesta e riconquistare quote di mercato.
L’energia gioca un ruolo fondamentale nella politica estera russa e il cartello Opec Plus, seppure farà ben poco per aiutare il bilancio dello stato – la cui stabilità è una priorità assoluta sullo sfondo di cambiamenti politici più ampi in arrivo – ha rappresentato un veicolo utile per un maggiore impegno di Mosca in Medio Oriente e nei rapporti con Riyadh.
Immagine: Bloomberg