EDITORIALE: Chiudere Radio Radicale è diventata una questione ideologica

L’esecutivo in carica ha deciso di passare alla storia come quello che ha chiuso Radio Radicale. A dirla tutta, è il partito giallo a condurre una crociata inutile e dannosa contro quello che i figli delle stelle considerano un avversario da molti anni. “La condanna del governo a Radio Radicale –  si legge in un comunicato della Federazione nazionale della Stampa italiana (Fnsi) –  appare come una crociata, una vendetta,  motivando la peggiore persecuzione della libertà di stampa in Italia dal dopoguerra come un modo per ripristinare le regole e risparmiare“.  Le questioni tecniche sulla concessione a Radio Radicale sono note e chi vuole conoscerle può farlo agevolmente, mentre le implicazioni politiche paiono meno evidenti benché, forse, più urgenti.

“Stare sul mercato”

Anzitutto, l’informazione non può sottostare del tutto alle leggi del mercato. Essendo un prodotto culturale, c’è bisogno di un sostegno pubblico in modo da difendere la qualità ed evitare la concentrazione dei media in poche mani. L’affermazione secondo la quale Radio Radicale deve chiudere perché non ha ascoltatori, quindi non può stare sul mercato, è falsa e tendenziosa. Falsa, perché gli ascoltatori ci sono, e tendenziosa perché Radio Radicale non può finanziarsi tramite pubblicità proprio in quanto fornisce un servizio pubblico. Questo ha costretto l’emittente, negli anni, a modificare palinsesto e programmazione rendendo oggi impossibile un accesso competitivo al mercato. È in virtù del servizio pubblico reso ai cittadini e al paese che oggi Radio Radicale è in questa situazione. 

Una questione di risparmio?

Falsa e tendenziosa anche l’affermazione che la chiusura di Radio Radicale sia accidentale, un risultato non voluto del necessario riordino della spesa pubblica, poiché un emendamento che poteva salvarla (proposto da un membro di un partito di governo) è stato bocciato. Giova ricordare che la spesa pubblica del paese è di circa 11 miliardi di euro l’anno, non saranno quindi i pochi milioni tolti a Radio Radicale a rimettere in sesto la nostra economia. Anzi, si toglierà ai cittadini una voce. E ci sembra un costo molto più alto, specie in un contesto di pluralismo ridotto, dove pochissimi gruppi editoriali controllano la gran parte delle testate e delle emittenti.

Il taglio ai finanziamenti pubblici all’editoria – discutibile proprio perché nuoce maggiormente alle realtà più piccole, favorendo la concentrazione in grandi gruppi editoriali – aveva già ridotto di 4 milioni di euro i soldi a disposizione per l’emittente. Il mancato rinnovo della concessione significherà una perdita di altri 8 milioni e quindi la chiusura della radio. Quei soldi, tuttavia, verranno probabilmente dati a qualcun’altro: dove starebbe allora il risparmio?

Una partita ideologica

La partita è tutta ideologica. Un’ideologia contraria al pluralismo dell’informazione e alla circolazione delle idee, che – per citare la Federazione nazionale della Stampa italiana – “si traduce in una guerra sempre più aperta a tutte le voci delle differenze, delle diversità e delle minoranze”. La questione di Radio Radicale va vista insieme al voto contro la Direttiva europea sul Diritto d’autore che, pur da correggere nell’impianto, consente ad aziende editoriali, giornalisti, professionisti e intellettuali di ricevere la giusta remunerazione del proprio lavoro da parte dei giganti della rete. Ancora una volta, i gialli favoriscono quei grandi gruppi di interesse che affermano di voler combattere. 

Il monito che viene da est

Che il paese fosse in mano a forze reazionarie, incompetenti, senza nessuna capacità di equilibrio e sobrietà nell’esercizio del potere, era cosa nota. Come era cosa nota l’antipatia che tali forze nutrono verso il dissenso, e che oggi si manifesta nella rimozione di striscioni, nella repressione della contestazione, nel tacitare voci scomode. Quello che ancora non è chiaro a tutti è che mentre si grida al fascismo di ritorno, concentrandosi sulla sfacciata riproposizione di simboli e retoriche del Ventennio, una più sotterranea erosione delle libertà democratiche sta avendo luogo nel nostro paese. E qui il discorso trascende l’attuale esecutivo italiano e va inserito nella parabola discendente che, da più di un decennio, colpisce le democrazie europee.

Per chi da tanti anni osserva l’Europa orientale, il pericolo pare evidente. Le democrazie illiberali in fase di costruzione in Ungheria e Polonia non hanno nulla a che vedere con i passi dell’oca e le camicie brune. Sono invece stati partiti democraticamente eletti a modificare i dettati costituzionali per ottenere facili maggioranze, a ridurre l’indipendenza della magistratura, a limitare le libertà individuali. E tutto è cominciato tacitando le voci critiche. Come? Stringendo i cordoni della borsa, ovvero tagli di finanziamenti, mancati rinnovi di concessioni, fondi concessi in cambio di sostanziali modifiche della linea editoriale. La voce del padrone ha così potuto raccontare la favola di turno senza che nessuno potesse dire che era una bugia.

“Infimi sciacalli” e altre preoccupazioni

Le premesse per una deriva simile ci sono tutte anche da noi. La chiusura di Radio Radicale non è certo parte di un piano per silenziare le voci critiche, ma preoccupa allorché la inseriamo in un contesto più alto di riduzione progressiva del pluralismo democratico in Europa. Non conforta tuttavia constatare che i gialli, privi come sono di studi sufficienti a gestire lo stato e spesso mossi da ideologie pigliatutto raccattate qua e là, con vuoti slogan dietro cui manca una concreta visione politica, abbiano più volte tacciato i giornali e chi ci lavora di essere servi, pennivendoli, “infimi sciacalli“, e altre cose indegne per chi ricopre responsabilità di governo.

Spiace infine constatare che il responsabile di tutto questo, sottosegretario per l’editoria, è uomo più volte colto in fallo per certe sue esternazioni impulsive e per i suoi pisolini in parlamento. Purtroppo, il sonno della ragione spesso genera mostri. La rete, diceva il guru delle stelle, è l’unica via. Ma è una via impervia, piena di trappole, di disinformazione, e controllata da oligarchi d’oltreoceano. Servono altre voci, serve che lo Stato appoggi il pluralismo contro le feroci regole del mercato, serve che si difenda un patrimonio pubblico come Radio Radicale.

immagine da La Repubblica

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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