Dalla fusione delle due società editoriali L'Espresso e Itedi nasce il ''gruppo leader editoriale italiano e uno dei principali gruppi europei''. Avrà 750 milioni di ricavi, la più alta redditività del settore, e non sarà gravato da debiti. ANSA/MARTINO IANNONE

La fine del pluralismo, ufficiale la fusione tra la Stampa e la Repubblica

Ecco la fusione, addio al pluralismo

La notizia della fusione tra il Gruppo CIR, di Carlo De Benedetti, e Itedi, società controllata dalla famiglia Elkann, segna un durissimo colpo al pluralismo dell’informazione italiana, creando un oligopolio intellettuale senza precedenti che, in nome del libero mercato, renderà prigioniera la mente degli italiani. Poiché qui si parla di giornali, di informazione, e quindi di libertà. La libertà del cittadino a essere informato da fonti indipendenti, plurime, scevre da interessi di parte. Tale libertà, nel nostro paese, era già piuttosto malconcia ma adesso viene messa in catene in nome del libero mercato.

Il gruppo Itedi è proprietario de La Stampa, quotidiano di Torino, e il Secolo XIX di Genova, delle emittenti Radio Nostalgia e Radio NumberOne, e delle sussidiarie pubblicitarie Publikompass e Publirama. L’acquisto del quotidiano ligure da parte della società di John Elkann, avvenuta nell’agosto 2014, aveva già destato qualche perplessità tra gli addetti ai lavori. Tra i cittadini assai meno, ma ai cittadini queste cose non vengono dette. Le perplessità erano di due ordini: anzitutto ci si chiedeva se questo non avrebbe nuociuto al pluralismo nell’informazione; in secondo luogo ci si chiedeva se sommare due giornali in crisi, anziché risolvere i problemi finanziari, non li avrebbe raddoppiati. La fusione con la CIR darà così luogo a un solo grande giornale con diversi nomi, o forse uno solo che tutti li riassume: la Stampa delle Sera della Repubblica decimonona.

Descrizione di un oligopolio

Itedi verrà infatti inglobata dalla CIR, che controlla il Gruppo editoriale l’Espresso di cui fanno parte il quotidiano La Repubblica, il Tirreno, il Piccolo di Trieste, il Centro di Pescara, la Gazzetta di Mantova, la Provincia Pavese, la Gazzetta di Modena, il Mattino di Padova, il Messaggero Veneto e altre testate locali. A queste vanno ad aggiungersi i periodici, come L’Espresso, Micromega, Limes, ed emittenti come Radio Dj, Radio Capital, Repubblica TV, la Effe, e la società pubblicitaria Manzoni Spa. Se a queste aggiungiamo La Stampa e il Secolo XIX, siamo di fronte a un colosso di proporzioni inaudite.

Ma non finisce qui, poiché la famiglia Elkann controlla il 16,7% di Rcs, e quindi del Corriere della Sera. Questa quota non dovrebbe però finire nelle mani di De Benedetti ma verrà redistribuita tra gli azionisti (anche se già si vocifera di una prossima fusione tra il Corriere e il Sole 24ore). In questo modo FCA, la società automobilistica degli Elkann, già padrona della Itedi, esce dal mercato editoriale italiano. Questo non significa che la famiglia Elkann rinunci a influenzare il mondo dell’informazione: la Exor, presieduta da John Elkann e parte di FCA, ha infatti acquistato il 34,7% dell’Economist, segno che il potere vero, oggi, sta altrove.

Siccome abbiamo parlato di oligopolio, giova ricordare che la Rcs Libri è stata scorporata dal Gruppo Rcs (quello del Corriere della Sera) e venduta alla Mondadori di Berlusconi che è così diventata proprietaria di quasi tutte le grandi case editrici italiane, escluse Adelphi e Feltrinelli. Qualora le voci di “scalata” di RCS da parte di Urbano Cairo, patron di La7 e proprietario della Cairo Editore che pubblica alcuni tabloid,  la dimensione dell’oligopolio nell’informazione italiana andrebbe rafforzandosi.

Conseguenze dell’oligopolio

I giornali sono in crisi, questo non è un segreto. Vendono sempre meno e i click su internet non bastano a ripagare le perdite. I licenziamenti di massa dei giornalisti più maturi e lo sfruttamento diffuso dei collaboratori più giovani, rende la professione giornalistica povera e ricattabile.

La crisi dei giornali è tuttavia dovuta a un modello industriale, così legato al supporto cartaceo, con redazioni ipertrofiche e cariche di analfabeti digitali, che difficilmente potrà essere superato attraverso l’accorpamento delle testate, e quindi l’ottenimento di nuovi settori di mercato. Gli editori italiani pagano decenni di miopia e scontano il peccato originale – ovvero il concedere gratuitamente i contenuti online – senza avere mai compreso la portata della rivoluzione digitale.

La crisi, si badi bene, ha conseguenze nefaste sui cittadini i quali si trovano in mano giornali sciatti, imprecisi, realizzati da giornalisti vecchi e stanchi, oppure giovani e precari, quando non sfruttati, i quali non possono che realizzare contenuti di scarsa qualità o aderire supinamente a ordini di scuderia che spesso omettono la verità o la piegano a interessi particolari.

Il problema della qualità dei giornali, tuttavia, è nulla a confronto di quello democratico: il fatto che sempre più testate siano in mano a pochi crea una oligarchia che, per sua natura, cerca e trova sponde nella politica mettendosi al servizio di questa o quella parte. I giornali diventano così strumenti per imbonire i cittadini, diffondere il conformismo e salvaguardare lo status quo. Diventano, in buona sostanza, strumenti attraverso cui la classe dirigente mantiene e aumenta la propria capacità di conservazione del potere.

Il pluralismo, oggi, non può dirsi garantito dalla presenza di diverse proprietà poiché tutte partecipano degli stessi interessi e della stessa visione del mondo, essendo espressione di grandi gruppi politico-economici. Le eccezioni rappresentate dal Fatto Quotidiano o dal Manifesto non possono certo bastare.

Conclusioni

Un sagace libretto di Antonio Manzini, Sull’orlo del precipizio, Sellerio 2015, immagina un mondo in cui tutte le case editrici vengono acquistate da una sola società. Un monopolio da cui la libertà intellettuale esce a pezzi e si afferma un totalitarismo dell’ignoranza che, ovviamente, aiuta a vendere e rincoglionisce la gente. Ebbene, quella distopia pare oggi più vera alla luce delle fusioni in atto.

Qualcuno si chiederà cosa c’entri tutto questo con l’Europa centro-orientale, non molto se escludiamo il fatto che il nostro paese scende così allo stesso livello di Ungheria e Polonia, paesi dove l’oligopolio e la sua connivenza con alcuni settori della politica, è estremamente marcato.

Descrivendo l’operazione tra CIR e Itedi, Luca Sofri ha parlato di “singolare pluralismo dell’informazione” ma la metafora migliore per riassumere l’accaduto è quella di Riccardo Ruggeri, già dirigente Fiat e ora editore, che in tempi non sospetti disse: “I giornali faranno la fine delle birre, per le quali, dopo una stagione di consolidamenti fra grandi società, sono rimasti solo i marchi a distinguerle, mentre il liquido bevuto è divenuto lo stesso, come identiche sono le reti distributive e le politiche di prezzo. Eccezion fatta per le birre artigianali”. E quindi buona lettura, cittadini, e scolatevi le vostre notizie bionde e insipide.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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