CROAZIA: La morte post-moderna del generale Praljak

Erano in migliaia, avvolti a lutto nella bandiera a scacchi, a piangere la morte di Slobodan Praljak, generale croato responsabile, insieme a molti altri, della mattanza jugoslava. Un prete dal pulpito consacrava l’eroe di guerra, la cattedrale cattolica gremita, mentre fuori la città di Mostar taceva attonita. Una pietra, sul ponte che proprio Praljak distrusse, rammenta ai passanti di “non dimenticare mai“. La memoria, però, è selettiva e arbitraria. Così i croati ricordano come eroe quello che un tribunale ha dichiarato criminale. Ma l’eroismo di Praljak sta tutto in una fiala di veleno bevuta mentre i giudici al Tribunale penale per l’ex Jugoslavia (ICTY) lo condannavano a ventidue anni di reclusione per crimini di guerra. Un suicidio a favore di telecamere che fa, di quel generale dimenticato, un simbolo della lotta per la libertà del popolo croato.

Una libertà intrisa di sangue. Slobodan Praljak è stato ai vertici dell’esercito croato e fu inviato in Bosnia Erzegovina come rappresentante delle autorità di Zagabria al fine di coordinare le attività delle milizie nazionaliste croato-bosniache (HVO) che, nell’area di Mostar, si sono rese responsabili di stragi e deportazioni, oltre che di traffici illeciti di armi e stupefacenti. Il campo di concentramento di Dretelj, non lontano da Mostar e Međugorje, deteneva in condizioni disumane centinaia di musulmani. Fu proprio Praljak ad autorizzare i giornalisti europei a entrare nel campo. Quella guerra era così, non ci si vergognava della barbarie, non si nascondeva il crimine poiché si riteneva di essere nel giusto.

Praljak dunque sapeva, come sapeva delle persecuzioni ai danni dei civili di religione musulmana, della distruzione dei loro villaggi, delle stragi inutili ai fini militari ma necessarie alla pulizia etnica. Sapeva e non ha fatto nulla, anzi ha ordinato la distruzione del ponte di Mostar, simbolo dell’antica convivenza etnica degli slavi del sud. E siccome sapeva, e ha taciuto quando non promosso i crimini dell’HVO, è stato condannato a ventidue anni di reclusione. E’ questo l’eroe che i croati piangono.

L’entità della pena restituisce il suo ruolo nel conflitto, una seconda linea in fondo, un criminale di rango inferiore. Ora con quella morte mediatica e premeditata, Praljak assurge al ruolo di eroe accanto a criminali dal curricolo assai più importante, come quell’Ante Gotovina che ancora campeggia sulle bandiere e sui cartelloni lungo le strade croate. La pozione di veleno gli ha dato gloria imperitura. Il suo suicidio non è stato un atto di stoicismo, non c’è da scomodare Catone o Quintilio Varo. Non è stata una scelta di dignità personale di fronte alla vergogna della condanna. E non è stato un tentativo di evitare il patibolo, come Göring a Norimberga, poiché non c’era patibolo e perché l’Aja non è stata, in nessun caso, una Norimberga dei Balcani. Il suo suicidio non è nemmeno stato un tentativo di far ricadere sui giudici la condanna subita. Tutto questo è stato però parte della sua morte, in un citazionismo portato fino alle estreme conseguenze, in un pastiche anticato ma dal gusto tutto post-moderno, a sapiente favore di telecamere.  

Il suo suicidio è stato mediatico, estetico, teatrale. Prima della guerra, Praljak è stato regista, attore e direttore di prestigiosi teatri tra cui quello di Mostar. E da regista ha messo in scena la propria morte, da attore l’ha interpretata morendo infine sul palcoscenico della storia. Non ci saranno però applausi. Le sue colpe non verranno lavate da una bella morte. A Mostar qualcuno piange in chiesa, è vero. Sono quelli che usano la memoria della guerra per creare nuove divisioni, quelli che rifiutano la propria parte di responsabilità.

La memoria, dicevamo, è arbitraria. Il ponte di Mostar è stato ricostruito uguale a prima. Ricostruzione che, in quanto tale, è rimozione delle macerie e del ricordo, rimozione della cultura che sotto le macerie giace a favore di una ri-strutturazione del paesaggio, della memoria e non da ultimo dell’identità. E’ quanto avvenuto con il ponte di Mostar, la cui distruzione si deve proprio a Praljak. Una distruzione che fu un gravissimo colpo per il morale dei bosniaci musulmani. Uno stupro che, nella ricostruzione, si palesa. Il ponte di Mostar è infatti stato ricostruito identico a com’era, utilizzando addirittura (per quanto possibile) le stesse pietre, ma quel ponte, che per secoli ha unito i quartieri croati a quelli musulmani della città, che per secoli è stato luogo di transito, di passaggio, di comunicazione, sembra aver incorporato un’invisibile barriera. Da soglia tra due anime della stessa città, il nuovo ponte diventa un limite invalicabile. Una cesura che si respira ancora oggi a Mostar grattando appena sotto la superficie di ristorantini e negozietti per turisti.

Anche di fronte ad un ripristino integrale e filologicamente fedele, la memoria condivisa, il “senso comune” di quel luogo è definitivamente mutato. Il risultato è un bel manufatto senz’anima. Lo ha spiegato bene Gilles Péqueux, che ne avviò i lavori per poi dimettersi perché “l’etica” del ponte non era garantita. L’etica del ponte, opera che non nasce dalla collettività locale ma da una squadra di tagliapietre turchi preferiti a quelli bosniaci per ragioni di costi. Non è il simbolo di una riconciliazione ma di una pacificazione coercita, calata dall’alto su un lutto non elaborato. Come ebbe a spiegare Paolo Rumiz, “oggi il ponte è un innesto incompatibile, a forte rischio di crisi di rigetto“. E di questa crisi, di questo ponte che diventa muro, di questa lacerazione ancora non sanata, bisogna ringraziare Slobodan Praljak: una colpa forse persino più grave delle morti e delle persecuzioni.

 

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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2 commenti

  1. In un contesto in cui i morti ammazzati furono migliaia, l’essere stato colui che ha anche concretamente dato l’ordine di abbattere il cinquecentesco ponte ottomano sulla Neretva può apparire un dettaglio marginale. Non è così, invece. Praljak diede quell’ordine non solo perché il ponte era la rappresentazione fisica, concreta, tangibile, della convivenza pacifica tra oriente e occidente, tra cristiani e musulmani e incarnava, anche simbolicamente, un mondo possibile, fatto di tolleranza, rispetto e civiltà. Ma anche perché esso era un miracolo architettonico, una sfida tecnica, una sfida splendidamente vinta: quel ponte era indiscutibilmente magnifico, oggettivamente bello. E nulla più della bellezza disturba la mediocrità, i totalitarismi lontani, quelli vicini. I fascismi di ieri, quelli di cui il generale Praljak era rappresentante, e quelli di oggi sono accumunati dall’essere grigi, cupi, tristi, privi di una qualsivoglia forma di luce. Si può dire, senza tema di smentita, che totalitarismi e fascismi sono, prima di tutto, brutti. Brutte sono le immagini che sempre più spesso invadono le nostre case, da tutto il mondo: esse sono il frutto inevitabile di quei totalitarismi, di quei fascismi, sono l’indotto consequenziale della mediocrità che non sa riconoscere la bellezza, di cui anzi sono antitesi. Tra quelle immagini non possiamo non annoverare, nel nostro vicino sempre più asfittico, quelle rimbalzate da Como, degli skinhead farneticanti proclami d’odio in casa d’altri. Ancora più brutto è stato il silenzio o, peggio, il giustificazionismo con cui certa destra li ha accolti, derubricando l’episodio ad una ragazzata di periferia. Non è tattica o, comunque, non solo: quanto piuttosto l’impossibilità strutturale a cogliere appieno la ripugnante bruttezza di quell’atto. A costoro gioverebbe ricordare chi a Mostar, Srebrenica e Sarajevo stava dalla parte del grilletto e chi, invece, di fronte al mirino.

  2. E’ facile liquidare questo suicidio come teatrale e a favore di telecamere…un poi più difficile compiere il gesto.
    Forse questo suicidio ci può aiutare a ricordare come in Iraq anche l’esercito statunitense si sia reso responsabile di stragi e deportazioni, oltre che di traffici illeciti.
    Forse ci può aiutare a ricordare come nel carcere americano di Abu Ghraib non solo i detenuti fossero in condizioni disumane ma che su di essi fu compiuta anche tortura. Non furono però condannate seconde linee e non ci furono grandiosi e mediatici processi per crimini di guerra.
    Le prime, seconde terze e quarte linee sono tuttora descritte dalla stampa come esportatori di democrazia.
    Grazie.
    Ad onore di un gesto che lungi dal cancellare le colpe richiede coraggio e non può essere deriso da facili parole.

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