UNGHERIA: La lunga lotta contro la corte costituzionale/4

di Matteo De Simone

(Seguito della Terza parte)

Il nuovo testo rinnova fortemente anche le modalità di accesso alla giustizia costituzionale. Per quanto concerne il controllo ex ante, la Commissione di Venezia, nella sua opinione del marzo 2011, aveva sconsigliato alle autorità ungheresi di concedere il potere di iniziativa ad organi parlamentari o governativi, mantenendolo come prerogativa esclusiva del Presidente della Repubblica allo scopo di evitare un’eccessiva politicizzazione della corte. Nonostante ciò, il nuovo art. 6.2 concede al parlamento, oltre che al presidente, la possibilità di adire a priori la corte costituzionale. Questa possibilità resta però piuttosto improbabile, in quanto solo il deputato proponente, il governo e il presidente dell’Assemblea Nazionale possono chiedere al parlamento di esprimersi in merito. Quest’ultimo, per giunta, dovrà acconsentire a inviare l’atto alla corte costituzionale subito dopo averlo votato.

Assai più radicali sono invece le modifiche in merito al giudizio di costituzionalità a posteriori, come si nota all’art. 24.2 (punti b – e). Scompare l’actio popularis, sostituita da un più ampio ricorso diretto individuale contro atti amministrativi o sentenze individuali, qualora sussista un dubbio sulla loro costituzionalità (mentre la legge XXXII del 1989 sulla corte costituzionale ammette ricorsi individuali solo sulla base di una presunta violazione di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito). Rimane naturalmente il controllo concreto incidenter, mentre la sola forma di controllo astratto ex post sopravvissuta spetta al governo, a un quarto del parlamento e all’ombudsman unico.

Sicuramente l’elemento più vistoso è l’eliminazione dell’actio popularis. La motivazione dichiarata per questa scelta sta nel desiderio di ridurre il continuo sovraccarico di lavoro della Corte Costituzionale, la quale finora riceveva circa 1600 petizioni all’anno per via del fatto che, attraverso questo strumento, chiunque, anche senza un interesse personale, poteva sollevare una questione di legittimità costituzionale. L’actio popularis era per giunta impiegata anche laddove sarebbero sussistiti i requisiti per un ricorso individuale diretto, in quanto l’accesso via actio popularis risultava assai più semplice. Se da un lato questo strumento è stato largamente usato e forse persino abusato, dall’altro è innegabile il ruolo che esso ha avuto nel dare forma alla tradizione e ai valori costituzionali ungheresi durante la complessa e delicata fase di transizione. Sono molte le leggi che, in storiche sentenze della corte, sono state dichiarate anticostituzionali sulla base di un’actio popularis, come quella sulla pena di morte (sentenza n. 23/1990), contribuendo in maniera significativa allo sviluppo democratico del paese. Non a caso l’ex presidente della corte costituzionale Lázló Sólyom ha osservato che questo strumento è divenuto un sostituto della democrazia diretta”, rendendo i cittadini parte attiva nel processo di trasformazione dell’ordinamento.

Un forte ruolo della corte costituzionale è un elemento comune a molti ordinamenti post-socialisti, soprattutto nei primi anni del consolidamento democratico. Non a caso alle corti di questi stati sono generalmente attribuite competenze più ampie rispetto a quelle delle corti dell’Europa occidentale, attraverso un controllo di costituzionalità spesso sia astratto che concreto, tanto a priori quanto a posteriori, a cui si deve inoltre aggiungere la possibilità di presentare ricorsi individuali. Questa scelta era vista come una garanzia contro il pericolo che le nuove e deboli istituzioni potessero deviare dal percorso democratico verso involuzioni autoritarie e populiste, in un momento in cui lo stesso stato di diritto era ancora un principio largamente estraneo (o comunque scarsamente osservato) alla cultura legale dominante. Decidendo sulla costituzionalità di atti riguardanti le trasformazioni economiche, le politiche sociali, le competenze istituzionali e la giustizia di transizione, le corti – seppur con risposte differenti – hanno contribuito, al pari degli organi legislativi, allo sviluppo dei nuovi ordinamenti democratici.

In nessun altro paese la corte costituzionale ha avuto un ruolo tanto cruciale nei processi di transizione democratica e integrazione europea quanto in Ungheria. Il grande attivismo della corte, fondato anche sull’ampia gamma di competenze assegnategli (persino la facoltà di agire sua sponte in caso di manifesta incostituzionalità), ha portato ad un altissimo numero di norme annullate, una ogni tre nei primi 6 anni e mezzo della sua attività. È stata la puntuale, quasi ossessiva applicazione dei principi di certezza del diritto e legalità da parte della corte che ha dato forma all’idea, tutta ungherese, di una “rivoluzione sottoposta allo stato di diritto”. Attraverso un’articolata interpretazione della carta costituzionale e l’assimilazione della giurisprudenza occidentale (soprattutto tedesca, statunitense, spagnola e italiana) la corte non ha solo esercitato un potere “repressivo”, bensì ha creato un coerente “sistema costituzionale” di principi, basato non tanto sulla lettera della costituzione quanto sulla sua applicazione: è la costituzione vivente, o “costituzione invisibile” come viene definita nella già menzionata sentenza n. 23/1990, la quale trascende e sopravvive alla costituzione formale.

Il non semplice compito dei giudici costituzionali ungheresi sarà ora quello di risolvere gli eventuali conflitti tra l’acquis della “costituzione invisibile” ed il nuovo testo fondamentale. Lampante esempio di questo conflitto è il categorico rifiuto, espresso nel preambolo, dell’estinzione tramite prescrizione dei crimini commessi durante il periodo comunista. In nome del principio di certezza del diritto, il tribunale costituzionale magiaro, aveva già escluso la possibilità di riaprire i termini per crimini che, seppur rimasti impuniti a causa della compiacenza del regime, non erano configurabili come crimini di guerra o contro l’umanità (sentenza n. 11/1992). Il nuovo preambolo, che come abbiamo detto è ex art. R (1) vincolante per l’interpretazione delle norme costituzionali, esprime pertanto la volontà di rompere con la tradizione costituzionale precedente. In questo contesto, l’indebolimento della corte costituzionale sembra complementare a quel desiderio di discontinuità propugnata dalla nuova costituzione e dalle forze politiche di cui è espressione. Questo è ben evidente sempre nel preambolo, dove si legge: “Noi non riconosciamo la costituzione comunista del 1949, poiché è stata la base di un regime tirannico; pertanto la dichiariamo nulla.” Con queste parole si pone pertanto fine – almeno formalmente – a quella cultura costituzionale propria dell’Ungheria che aveva fatto della continuità costituzionale e del gradualismo il proprio tratto più caratteristico dal 1989 in poi. Saranno le future sentenze della corte, qualora si troveranno a dover esaminare la normativa precedente e futura alla luce della nuova costituzione, a chiarire se questa discontinuità avverrà anche sul piano sostanziale o se la “costituzione invisibile” sarà effettivamente in grado di perdurare.

Come ha notato la commissione di Venezia, però, la decisione di dichiarare la precedente costituzione “nulla” anziché abrogata crea non pochi problemi di natura legale. Qualora essa fosse interpretata in maniera sistematica, questo significherebbe la nullità ex tunc dell’intero testo costituzionale attualmente in vigore e sulla base del quale la stessa nuova costituzione è stata approvata, portando ad un evidente paradosso giuridico. Inoltre la nullità ex tunc comporterebbe la perdita di qualsiasi base legale di tutta la produzione giuridica dell’Ungheria moderna, così come dell’intera e ricca giurisprudenza della corte costituzionale. Al rifiuto della precedente costituzione fa fronte il reverente riferimento alla “costituzione storica”, un non ben definito concetto pseudo giuridico di significato più politico che legale, giacché non vi erano costituzioni scritte prima di quella del 1949.

La costituzione interviene anche sulla composizione della corte costituzionale: vengono prolungati da 9 a 12 gli anni di durata in carica dei giudici costituzionali, il cui numero viene riportato a 15 (era stato ridotto a 11 nel 1994). Inoltre, il presidente non sarà più scelto dai giudici costituzionali bensì dal parlamento, al pari degli altri membri. A ciò è da aggiungere che il 6 giugno 2011 l’Assemblea Nazionale ha approvato una legge che dispone l’aumento del numero dei membri della corte già da settembre, procedendo con la loro nomina tre settimane dopo. Fra di essi quattro sono stati scelti da Orbán stesso, uno dal suo partito alleato, i cristiano democratici (i giudici eletti sono cinque poiché uno dei membri attuali ha dovuto rinunciare alla carica, essendo stato nominato ambasciatore negli Stati Uniti).

Riguardo al potere giudiziario, all’art. 26.2 viene stipulato che nessun magistrato (sia inquirente, sia giudicante) può mantenere il suo posto avendo superato l’età pensionabile generale, eccettuato il presidente della Corte Suprema. Questo si traduce in pratica in un abbassamento dell’età pensionabile dei giudici da 70 a 62 anni, andando a creare nel giro di un anno un vuoto nell’organico delle procure e dei tribunali di circa 300 magistrati, che dovranno essere sostituiti. In questo processo, è la stessa Commissione di Venezia a temere per eventuali interferenze politiche nella nomina dei nuovi funzionari pubblici.

In chiusura, è opportuno menzionare un importante dato “strutturale”. L’ordinamento ungherese da sempre prevede che determinate materie ritenute particolarmente rilevanti (quali il funzionamento delle principali istituzioni dello Stato, l’esercizio dei diritti fondamentali, il finanziamento dei partiti, la normativa sulla cittadinanza, ecc.) siano disciplinate da leggi organiche – dette “leggi cardine” – che richiedono una maggioranza dei 2/3 dei votanti per essere approvate. Queste leggi, pur non facendo parte del sistema costituzionale, lo completano venendo a integrare quelle parti dove le formulazioni della costituzione sono lasciate volutamente generiche. La nuova costituzione amplia significativamente il ricorso a tale tipologia normativa, delegandovi più di 30 materie, tra cui il diritto di voto, i media, le authority indipendenti, il Consiglio di bilancio, l’Ufficio dei revisori dei conti, le corti, la pubblica accusa e persino le tasse e le pensioni. Da più parti, fra cui la stessa Commissione di Venezia, è stato criticato l’uso che i redattori della costituzione hanno fatto di tale strumento, talvolta delegandovi materie solitamente ritenute costituzionali par excellence (come nel caso del potere giudiziario o del consiglio di bilancio) o materie troppo specifiche che sarebbero potute rimanere appannaggio dell’ordinaria produzione legislativa (come le tasse, le pensioni, la protezione della famiglia, i media). Nel primo caso ciò ha l’effetto di sottrarre alla lente della corte costituzionale intere materie che, non essendo più incluse nella legge fondamentale, non costituiscono parametro di legittimità costituzionale. Nel secondo, invece, si mira a “blindare” da futuri emendamenti determinate leggi riguardanti materie cruciali, quali la politica fiscale e le pensioni. In questo modo il partito al governo Fidesz si è assicurato che anche quando si troverà all’opposizione, nessuna di queste norme potrà essere modificata senza la sua approvazione, giacché – come ha puntualizzato lo stesso segretario della Commissione di Venezia Thomas Markert – “è assai improbabile che i governi futuri possano ottenere una maggioranza dei 2/3”. Ne consegue una seria limitazione delle prerogative delle future maggioranze parlamentari e della loro capacità di legiferare in determinate materie chiave.

Se si considera il numero consistente di “leggi cardine” previste nella nuova costituzione, l’approvazione del testo fondamentale appare, come confermato nel testo stesso, solo l’inizio di un più lungo e complesso processo di riforma dell’ordinamento ungherese. Non solo dovranno essere approvate ex novo diverse leggi cardine, ma quelle esistenti dovranno essere rese coerenti con il nuovo dettame costituzionale. Diverse riforme sono già in discussione al parlamento, come quella della giustizia, mentre altre andranno man mano ad aggiungere tasselli al mosaico. Se da un lato è evidente che il partito dominante Fidesz ha deciso di approfittare della situazione favorevole in parlamento per ridisegnare l’ordinamento statale secondo le proprie preferenze politiche, dall’altro è esagerato – almeno per ora – parlare di “rivoluzione costituzionale”. L’annunciata discontinuità, come abbiamo visto, è più che altro retorica politica, giacchè intere parti della vecchia costituzione sono state riprese alla lettera. Nonostante anomalie e forzature che certamente destano preoccupazione, l’Ungheria, come ha dichiarato lo stesso Sólyom, “rimarrà nella famiglia delle democrazie europee anche con la nuova costituzione”. Certamente si dovranno ora osservare con attenzione due elementi che determineranno gli sviluppi futuri del nuovo ordine costituzionale magiaro: da un lato il processo di approvazione delle leggi organiche, se e quanto sapranno andare nella direzione del dialogo e quindi, attraverso esso, della piena legittimità; dall’altro il lavoro della corte costituzionale nel conciliare il nuovo testo con l’insieme di quei principi (frutto della sua consolidata giurisprudenza) che costituiscono la “costituzione invisibile”.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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