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UNGHERIA: Orbán pensa ad un colpo di Stato elettorale?

Orbán annulla le elezioni politiche del 2026? Tre possibili scenari politici sul futuro politico dell’Ungheria.

Da BUDAPEST – C’è nervosismo tra i quadri dirigenziali ungheresi. Il nervosismo è dettato da una certa insicurezza sul futuro del Paese, tanto che si sta pensando ad un colpo di Stato elettorale. A dichiararlo è il filosofo János Kis, figura di spicco dell’opposizione liberale e primo presidente del partito SzDSz (Alleanza dei Liberi Democratici) attivo tra il 1990 e il 2010. Le elezioni politiche sarebbero previste per l’aprile 2026, ma mai come in questo momento il condizionale è d’obbligo.

Secondo Kis, l’Ungheria è un paese in crisi, non solo dal punto di vista economico (l’inflazione è alle stelle e se ne accorgono anche i turisti), ma soprattutto sul piano politico. Non è più da tempo una democrazia, ma non è neanche uno Stato ideologico fascista, vista, ad esempio, la volubilità con cui Orbán gestisce la questione delle minoranze: qui è in vigore un’«autocrazia elettorale» – a detta di Kis – in cui «nessuno è padrone degli eventi, nemmeno l’autocrate stesso». E siccome tutta la politica interna ed estera di Orbán ha senso solo se supportata da una vittoria elettorale plebiscitaria (alla Putin per intenderci), nel momento in cui la stessa è in dubbio si presentano almeno tre possibili scenari.

I tre scenari

Il primo è l’invalidamento delle consultazioni politiche. Nel caso in cui i risultati elettorali non fossero graditi, il premier potrebbe denunciare irregolarità e violazioni, come ad esempio l’interferenza straniera. A maggio, infatti, è stata presentata in Parlamento una proposta di legge sulla “trasparenza” nella vita pubblica, secondo la quale l’accettazione di finanziamenti dall’estero diventerebbe soggetta ad autorizzazione. Nel mirino sono ora le ONG e i media. Partiti e movimenti politici potrebbero essere il prossimo bersaglio.

Il secondo scenario è la dichiarazione dello stato di emergenza, o addirittura dello stato di guerra. Il decreto, della durata di 30 giorni rinnovabile con il voto di due terzi dei deputati, impedirebbe lo scioglimento del Parlamento e, dunque, le previste elezioni politiche. In questo caso, però, Orbán giocherebbe col fuoco. A detta di Kis, tra l’opinione pubblica ungherese c’è grande attesa e speranza in vista dell’aprile prossimo venturo. E che ci sia speranza in un popolo che, negli ultimi cento anni, ha conosciuto solo pene e dolori (e che riconosce come feste nazionali due rivoluzioni fallite, 15 marzo 1848 e 23 ottobre 1956) la dice lunga sulla tensione che si respirerebbe nel Paese se Orbán facesse un passo del genere. Come non mai dopo il 1956, gli ungheresi potrebbero scendere in strada e bloccare il paese rimandando a polizia ed esercito il compito di decidere se sostenere o meno il governo. Uno scenario da guerra civile, purtroppo.

La terza possibilità è quella di escludere dal voto TiSza, il partito di Péter Magyar, e andare alle elezioni con i soli candidati di FiDeSz e di Mi Hazánk!, il partito di estrema destra. Questo però segnerebbe la fine di ogni parvenza democratica e darebbe a Magyar la chance di convogliare su di lui un ancora più ampio consenso anti orbániano, già avanti di 15 punti sull’avversario secondo gli ultimi sondaggi. Ma non gli darebbe le redini (liberali o autoritarie) del paese, perché l’ampiezza del consenso presupporrebbe una tale eterogeneità di visioni politiche da rendere impossibile, in un eventuale scenario in cui Orbán venisse spodestato, un governo Magyar monocolore.

Eppure si muove. Segnali di insofferenza dalla società ungherese

Da qualche tempo a questa parte, il fronte pro Orbán mostra delle défaillances tra i sostenitori silenti, i non fanatici per intenderci. È cresciuta la rabbia e la sfiducia verso il Sistema di Cooperazione Nazionale (NER, Nemzeti Együttműködés Rendszere): la sanità, la scuola, le ferrovie sono nel caos, i nuovi ricchi ostentano lusso in un Paese sempre più povero, i comuni vedono ridotti i finanziamenti statali.

A tale riguardo, il 6 giugno scorso si è svolto, indetto dal sindaco di Budapest, Gergely Karácsony, un insolito (per noi italiani delle grandi città abituati a ben altro) sciopero di avvertimento: per 10 minuti, dalle 11:50 alle 12:00, tutta la rete pubblica dei trasporti della capitale (metro, autobus, tram) si è fermata per protesta contro i tagli ai finanziamenti pubblici per i comuni, mettendo in scena una decisa presa di posizione antigovernativa.

Così come insolita è stata la protesta dei medici ungheresi che si sono rifiutati di acconsentire al riconoscimento facciale negli ospedali ufficialmente in vigore dal 9 giugno scorso, ma che l’OKFő (Országos Kórházi Főigazgatóság, la direzione generale nazionale degli ospedali) ha prontamente trasformato in un sistema ancora in fase di sperimentazione anche per il problema che emergerebbe coi pazienti e i visitatori che vengono ripresi dalle telecamere senza il loro consenso.

A muovere forti preoccupazioni e perplessità nei confronti del sistema di riconoscimento facciale è anche Attila Péterfalvi, il garante per la protezione dei dati. La violazione della privacy e l’uso delle tecnologie digitali per l’identificazione dei cittadini renderebbe più agevole la trasformazione dell’Ungheria in uno Stato di polizia.

Banco di prova sarà probabilmente il prossimo 28 giugno, giorno in cui a Budapest è in programma il Pride, già vietato per legge. Sulle modalità dell’evento si discute ancora. L’ultima proposta è quella di impedirne lo svolgimento per le vie della città e riservare al corteo lo spazio dell’ippodromo comunale.

Alla luce di tutto ciò, sembra improbabile che Orbán si presenti all’elettorato come la soluzione che possa riportare ordine al caos, se non con l’uso della forza. È più verosimile che, al momento del tracollo, cerchi ospitalità a Mosca, seguendo gli esempi di Yanukovych e di Assad.

Foto: 444.hu 

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