Bruxelles punta ad intensificare le misure contro Mosca e accelera su REPowerEU, ma Ungheria e (soprattutto) Slovacchia fanno muro.
Lo scorso 23 giugno, in occasione del consiglio affari esteri dell’UE, sono partiti i negoziati sul prossimo pacchetto di sanzioni alla Russia, il diciottesimo dall’inizio della guerra in Ucraina. Dall’incontro è però emersa grande distanza tra le parti, testimoniata prima dalle dichiarazioni critiche del ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto, e ribadita poi con maggior forza dal veto slovacco, al vertice comunitario successivo. Un rituale già visto durante l’ultimo triennio, ma complicato stavolta da un nodo cruciale come quello energetico.
Qui Bruxelles
In una settimana di dibattiti intensi, che ha visto le istituzioni dell’Unione Europea confrontarsi con dossier in rapidissimo cambiamento (dall’escalation israeliana ai dazi di Trump), la postura anti-russa ha rappresentato l’unico vero elemento di continuità con il passato. Dopo meno di un mese dall’approvazione del diciassettesimo pacchetto di sanzioni infatti, la presidente della Commissione Ursula Von Leyen e l’alta rappresentante per gli affari esteri Kaja Kallas hanno annunciato ulteriori misure contro Mosca, concentrate come sempre sugli asset strategici della federazione: idrocarburi e conti bancari all’estero.
Tra gli obiettivi di Bruxelles figurano l’abbassamento del tetto al prezzo del petrolio da 60 a 45 dollari al barile, il divieto di utilizzo del gasdotto Nordstream, la progressiva neutralizzazione della “flotta ombra” che trasporta greggio russo sulle rotte internazionali, l’esclusione di oltre venti banche dal sistema di pagamento Swift. Alla base delle nuove sanzioni stanno prima di tutto ragioni geopolitiche; Kallas e Von der Leyen dubitano che Vladimir Putin sia davvero alla ricerca di un negoziato sull’Ucraina e hanno ribadito, dati alla mano, che questo sistema incide profondamente sia sul bilancio della Russia, sia sulla sua capacità di prolungare la guerra.
Il diciottesimo pacchetto però non può essere slegato da REPowerEU, il grande piano di riconversione energetica varato dall’Unione nel 2022, e da una legge in merito proposta proprio la settimana precedente dalla Commissione Europea, già oggetto delle prime contestazioni. Coerente con la missione di emanciparsi totalmente dagli idrocarburi russi, il testo riporta il divieto di stipulare nuovi contratti con la Federazione a partire dal 1 gennaio 2026, e di interrompere quelli in essere entro la fine del 2027. La legge è in attesa di passare all’esame del parlamento e del consiglio dell’UE, ma per la sua approvazione basterà una maggioranza qualificata, non quindi l’unanimità richiesta nel caso delle sanzioni, un’escamotage che ha suscitato forti polemiche in Ungheria e in Slovacchia.
Qui Budapest
Fiero oppositore delle sanzioni e destinatario di gas russo attraverso Turkstream, il governo di Viktor Orban ha manifestato anche in questo caso il suo dissenso ma, in uno strano ribaltamento dei ruoli, da una posizione più defilata rispetto a quella slovacca. Budapest ha preferito concentrare la maggior parte dei suoi sforzi nella campagna contro l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea, come dimostrano le numerose dichiarazioni pubbliche del Primo Ministro e Voks 2025, la consultazione popolare promossa su questo tema in concomitanza con i lavori di Bruxelles .
Le argomentazioni più dettagliate contro l’iniziativa di Kallas e Von Der Leyen sono state affidate quindi a Szijjarto. Il ministro degli Esteri si era già espresso una prima volta dopo lo scoppio della guerra tra Iran e Israele, chiedendo di evitare boicottaggi alle risorse russe in una fase cruciale per l’ordine internazionale e per il prezzo dell’energia. Ma qualche giorno dopo, con la tregua di Trump in vigore, è tornato sulla questione invocando chiarimenti giuridici. Ha richiamato una deroga sulla fornitura di petrolio concessa a Ungheria e Slovacchia in occasione del sesto pacchetto di sanzioni, e ha definito inaccettabile l’utilizzo della maggioranza qualificata su questa materia, una violazione della sovranità energetica del suo paese.
Qui Bratislava
Come detto all’inizio però, il ruolo del guastafeste in questa occasione è stato interpretato dalla Slovacchia di Robert Fico. Il veto alle sanzioni è una decisione strettamente connessa alla questione energetica e rappresenta il culmine di un processo innescatosi all’inizio dell’anno. Dal primo gennaio infatti il territorio ucraino non è più disponibile al transito del gas naturale di Mosca verso il paese danubiano. Gazprom e SPP (Slovenský plynárenský priemysel) hanno deciso così di deviare il flusso su Turkstream, per non rinunciare ad un contratto che le lega fino alla fine del 2034.
Fico ritiene questo accordo prioritario al punto tale da legarsi sempre di più a Putin e al suo governo, come dimostra il viaggio nella capitale russa per la parata della vittoria lo scorso 9 maggio. Gazprom garantisce sia la materia prima ad un prezzo conveniente, sia il trasporto gratuito fino al confine di Stato, ma una rescissione anticipata del contratto obbligherebbe Bratislava a pagare una penale superiore ai 20 miliardi di euro. Si tratta quindi di una situazione incompatibile con le linee guida di REPowerEU, e di conseguenza con le sanzioni messe sul tavolo da Kallas e Von Der Leyen.
La Slovacchia non sembra ancora attrezzata per compensare la perdita del gas russo; Fico ha più volte sottolineato che i costi per una riconversione sarebbero altissimi, e insostenibili per i cittadini. Per queste ragioni il Primo Ministro sta adottando una tattica ostruzionistica nei confronti di Bruxelles, da alcune settimane anche col supporto del parlamento, il quale ha approvato in assenza delle opposizioni una contestatissima risoluzione che invita il governo a non votare le sanzioni dell’Unione Europea.
Nei prossimi giorni Fico e Von Der Leyen si incontreranno per trovare un compromesso che porti all’unanimità, ma ad oggi la distanza da colmare appare enorme.
Foto dal profilo facebook di Peter Szijjarto