Questo è il secondo articolo di una serie con cui la redazione sportiva di East Journal vi accompagnerà fino a fine anno. SPORT 2016 intende essere una rassegna dei principali temi “extrasportivi” che hanno invaso il campo della manifestazione atletica nel corso del 2016. Un anno di grande attenzione per Europei e Olimpiadi, in cui si sono sovrapposti al racconto sportivo tematiche relative a terrorismo, migranti, doping, riconoscimento internazionale e altro ancora.
Il biennio 2015/16 è stato marcato dall’esplosione della crisi migratoria in Europa. Secondo le statistiche di Frontex il numero di attraversamenti di frontiera irregolari, già in notevole crescita nel 2014, è aumentato vertiginosamente nel corso del 2015, riversando una massa di migranti e richiedenti asilo, in gran parte provenienti dalla Siria, sulle cosiddette Balkan Route e Eastern Mediterranean Route. Due percorsi che prevedono attraversamenti in mare e via terra dalla Turchia per raggiungere Grecia, Croazia, Bulgaria e Ungheria, gli avamposti del sud-est dell’Unione Europea. Numeri forti (si parla di oltre un milione e mezzo di attraversamenti) a cui si vanno a sommare le rotte del Mediterraneo centrale, dirette principalmente dalla Libia alle coste dell’Italia meridionale.
Un flusso che, con la forza delle sue dimensioni, si è imposto all’attenzione dell’opinione pubblica in ogni settore. Sport compreso, in particolare a partire dall’agosto 2015, quando diverse squadre della Bundesliga e della seconda divisione tedesca hanno aderito all’iniziativa Refugees Welcome di sensibilizzazione nei confronti della tematica. Refugees Welcome si è unita ad altre iniziative come quelle del St.Pauli, squadra storicamente schierata politicamente a sinistra, che ha invitato oltre mille richiedenti asilo a una gara amichevole con il Borussia Dortmund e che attualmente sostiene il Lampedusa FC St.Pauli di Amburgo, squadra impegnata nella promozione del diritto al gioco per rifugiati e richiedenti asilo.
Le iniziative tedesche, oltre a riverberarsi all’estero, si sono poi tradotte in iniziative più concrete: il Bayern Monaco ha investito un milione di euro nell’apertura di una scuola calcio per rifugiati, Werder Brema e Bayer Leverkusen hanno offerto allenamenti gratuiti ai richiedenti asilo, lo Schalke 04 ha raccolto vestiti e beni, mentre l’Amburgo ha acconsentito all’utilizzo del parcheggio del proprio stadio per l’insediamento di un campo profughi. Allo stesso tempo, hanno sollevato anche diverse critiche per il coinvolgimento del quotidiano di destra Bild.
Particolare attenzione al tema dei flussi di migrazione è arrivata anche dal calcio greco, in particolare in relazione al dramma dei morti nel mar Egeo. Le statistiche di gennaio 2016 raccontavano una storia fatta di 55.000 sbarchi e 250 migranti morti in mare. Statistiche che però sono divenute parte di una narrazione di routine, di fronte alla quale l’opinione pubblica è sembrata desensibilizzata in maniera crescente. Per questo i giocatori di due squadre della seconda divisione hanno deciso di protestare, sedendosi a terra dopo il calcio d’inizio di una partita per commemorare i morti in mare, «in un tentativo di spingere le autorità a mobilitare tutti coloro che sembrano essere divenuti insensibili ai feroci crimini che vengono perpetrati nell’Egeo».
Scalpore è stato mosso anche dalle parole di Giandomenico Mesto, esterno italiano in forza al Panathinaikos, che ha voluto esporsi dichiarando pubblicamente il proprio sostegno alla causa dei migranti: «So che non è facile ma penso che per nessun motivo vadano respinte o rispedite nei loro Paesi, oggi sta capitando a loro e un domani potrebbe capitare a chiunque di noi».
Proprio dalla Grecia, culla olimpica, è partito forse il messaggio istituzionale più forte sulla crisi migratoria. Il Comitato Olimpico Internazionale ha infatti deciso di far transitare la fiaccola olimpica attraverso il campo profughi di Eleonas, alla periferia di Atene, nelle mani di un tedoforo asilante e amputato, il siriano Ibrahim al-Hussein, che al contrario di molti altri ha deciso di stabilirsi in Grecia e di non proseguire il viaggio verso le parti più settentrionali del continente europeo: «Porto la fiaccola per me stesso, ma anche per i siriani, per i rifugiati ovunque siano, per la Grecia, per lo sport, per le mie squadre di nuoto e basket. Il mio obiettivo è di non arrendermi mai. Ma di andare avanti, di andare sempre avanti. Ed è questo che posso ottenere attraverso lo sport».
Soprattutto, il gesto rivoluzionario del CIO è stato quello di istituire, per la prima volta nella storia dei Giochi Olimpici, una squadra di rifugiati che competesse a Rio 2016 sotto la bandiera con i cinque cerchi. Una delegazione composta da cinque atleti sud-sudanesi, due siriani, un etiope e due della Repubblica Democratica del Congo. Particolare scalpore ha fatto la storia della giovane nuotatrice siriana Yusra Mardini, che fu costretta, nella traversata dalla Turchia alla Grecia, a spingere a nuoto il gommone fino a riva per tre ore, per salvare la propria vita e quella degli altri occupanti del natante.
Storie umane, quelle di Ibrahim al-Hussein e Yusra Mardini, che compongono ormai la quotidianità dello sport: un rapporto testimoniato anche dall’iniziativa di FARE Network di stilare un “undici rifugiato” di Euro 2016 e dalla storia di Osama Abdul Mohsen, l’allenatore di calcio siriano sgambettato con il figlio in braccio dalla giornalista ungherese Petra Làzlò a Röszke, sul valico di confine serbo-ungherese. L’attenzione sulla storia di Mohsen garantì all’uomo un’opportunità lavorativa presso il settore giovanile del Getafe, in Spagna. Opportunità poi sfumata quando il migrante fu licenziato dalla dirigenza della squadra in quanto non dimostrava di essere interessato a integrarsi e imparare la lingua.
Storie tragiche, come quella di Fatim Jawara, portiere nel giro della nazionale di calcio femminile del Gambia e del Red Scorpions FC di Serekunda. Una storia terminata nelle acque del Mediterraneo, mentre Jawara cercava di raggiungere l’Europa– probabilmente le coste italiane – dalla Libia. Il suo è solo uno degli oltre 4.000 dei migranti morti in mare nel corso del 2016: Fatim Jawara è naufragata con ogni probabilità al largo di Misurata il 27 ottobre, insieme ad altre 96 persone.
«Non sono in competizione con nessuno. Corro al mio passo. Non ho desiderio di prender parte al gioco di essere migliore di chiunque, in nessun modo o forma. Ambisco solo a essere migliore di quello che ero prima. Questa sono io e io sono libera» (Fatim Jawara)
Foto: FARE Network (Facebook)