In concomitanza degli Europei di Francia, il network Fare ha pubblicato sul suo sito internet una formazione composta da undici calciatori impegnati nella competizione che hanno conosciuto da vicino il fenomeno dell’immigrazione europea, avendo i genitori provenienti da territori colpiti da conflitti o che, più in generale, hanno ottenuto lo status di rifugiati in paesi europei diversi da quelli in cui sono nati. Un’iniziativa lanciata in concomitanza con la Giornata Internazionale del Rifugiato, cita come ispirazione la classica frase di Eric Hobsbawm: «La comunità immaginaria di milioni sembra più reale come una squadra di undici persone con un nome». Per questo Fare ha deciso di dare visibilità a undici nomi che saranno sotto i riflettori durante Euro 2016: per dare un volto riconoscibile a un fenomeno troppo spesso trattato come una questione astratta e celebrare il coinvolgimento dei rifugiati nella vita, cultura e nel calcio d’Europa: «Generazioni di rifugiati hanno dato un contributo incommensurabile allo sviluppo dell’Europa. Senza rifugiati la nostra cultura e il nostro sport non sarebbero gli stessi».
La rete Fare Network è un’organizzazione internazionale che si occupa di combattere le discriminazioni sessuali e razziali nel calcio attraverso le società che decidono di aderire e collaborare. Il mondo del calcio è un ambiente che spesso, troppo spesso, tende ad auto-assolversi, giustificando tutto quello che avviene durante i famosi 90 minuti di gioco come se fosse avvenuto in una bolla spazio-temporale. Fare Network combatte attivamente questa indulgenza facendo in modo che il calcio possa diventare uno strumento per la lotta alle discriminazioni; e lo fa attivamente incoraggiando le società ad avere un ruolo propositivo, fornendo assistenza legale e anche sensibilizzando coloro i quali non sono coinvolti nella lotta alle discriminazioni in prima persona.
L’undici stilato da Fare Network sicuramente non potrà competere con il livello tecnico con le favorite del torneo, ma il valore di ciò che rappresenta è molto elevato. La formazione idealmente schierata da Fare si disporrebbe sul terreno di gioco con un 3-5-2, con Mandanda in porta, Ćorluka, Cana e Taulant Xhaka sulla linea difensiva, Granit Xhaka e Behrami sugli esterni, Modrić e Junuzović a interpretare in modo atipico il ruolo di interni di centrocampo e Shaqiri vertice alto, dietro le due punte Benteke e Kujović.
Steve Mandanda ha il passaporto francese, ma avrebbe potuto avere anche quello congolese, dato che è nato a Kinshasa. I suoi genitori si sono trasferiti a Évreux quando Steve aveva due anni. Fratello di altri due portieri professionisti, Mandanda ha iniziato la sua carriera nella vicina Le Havre sin dalle giovanili prima di trasferirsi a Marsiglia, dove vive insieme a tutta la famiglia dal 2008. Nelle fila dell’Olympique ha collezionato 300 presenze; non ha mai lasciato la città nonostante più volte sia stato accostato a squadre anche molto importanti come il Liverpool.
Vedran Ćorluka e Luka Modrić indossano la maglia croata e sono molto legati (il primo ha fatto da testimone di nozze al secondo), ma hanno due storie piuttosto differenti. I genitori di Vedran Ćorluka vivevano vicino Derventa, un paesino molto piccolo nella Bosnia-Erzegovina quando scoppiò la guerra civile e furono costretti a sfuggire al conflitto, cercando rifugio a Zagabria quando Vedran aveva sei anni. Ha fatto il suo esordio tra i professionisti nella Dinamo Zagabria, all’età di 17 anni. Anche l’infanzia di Luka Modrić è stata segnata dalla guerra di Jugoslavia. Nel 1991, nel pieno del conflitto, il padre di Luka si è arruolato nell’esercito per combattere, mentre tutta la famiglia otteneva lo status di rifugiato politico e trovava rifugio in un albergo per accogliere le migliaia di famiglie senza più casa in Croazia. Il nonno Luka, da cui il centrocampista del Real Madrid ha ereditato il nome di battesimo, è stato giustiziato a freddo in un bosco dalle milizie serbe nel dicembre del 1991. In un documentario sulla sua vita, il suo primo allenatore ricorda le condizioni psicologiche con le quali Modrić ha dovuto confrontarsi durante le prime fasi della sua carriera.
La diaspora dei kosovari in giro per l’Europa è una questione che ha conquistato una triste notorietà negli ultimi mesi. Questa generazione di calciatori kosovari, a differenza magari della prossima, è stata costretta a scegliere una nazionale di calcio da rappresentare, non potendo giocare per il proprio paese di origine, solo recentemente ammesso a UEFA e FIFA. Per questa ragione molti calciatori indossano la maglia della nazionale albanese, a loro culturalmente più vicina (è il caso del capitano delle aquile Lorik Cana, per esempio), o quella della Svizzera, che ha accolto un’ampia porzione della diaspora degli albanesi dell’ex Jugoslavia. In quest’ultimo caso, valgono le storie di Xherdan Shaqiri e Valon Behrami, che hanno optato per la nazionale del paese che ha adottato loro e le rispettive famiglie quando i genitori si sono trasferiti oltre le Alpi. Caso particolare è quello dei fratelli Taulant e Granit Xhaka, nati a Basilea da genitori kosovari e schierati uno contro l’altro nella gara inaugurale di Euro 2016: se Granit ha preferito onorare la maglia del paese che ha accolto la famiglia Xhaka, Taulant ha preferito dichiarare la propria fedeltà alle sue radici e accettare la chiamata dell’Albania di Gianni De Biasi.
Zlatko Junuzović è un trequartista austriaco di origini bosniache, attualmente in forza al Werder Brema. Anche la sua è la storia della fuga dei suoi genitori dal paesino bosniaco in cui vivevano quando Zlatko aveva soltanto cinque anni. Ha deciso di ripagare il suo paese di adozione a suon di gol. Infatti Junuzović è considerato uno dei migliori tiratori di punizioni in circolazione. La nazionale austriaca conta sui suoi gol per il passaggio del turno. Origini bosniache anche per Emir Kujović, bosgnacco nato in Montenegro e poi trasferitosi in Svezia con la famiglia all’età di sei anni e ora impegnato con la nazionale scandinava dove peraltro gioca un altro giocatore di origine bosniaca, Zlatan Ibrahimović.
Christian Benteke è forse il calciatore più forte, o quantomeno quello più conosciuto di questa nazionale immaginaria. Benteke ha il passaporto belga perché la sua famiglia – il padre ha intrapreso la carriera militare – è riuscita a utilizzare la presenza dello zio a Liegi per trasferirsi in Europa quando in Congo era già scoppiata la guerra civile. In più di un’occasione Benteke ha raccontato la storia della sua famiglia e del viaggio verso il Belgio, avvenuto in condizioni relativamente semplici a bordo di un aereo con un passaporto in tasca. Quando Christian aveva due anni la guerra impazzava nelle città congolesi, ma non nel villaggio dove Benteke viveva con la sua famiglia. Riuscire a fuggire per tempo ha preservato lui e la sua famiglia delle atrocità del conflitto. Per avendo il doppio passaporto e considerandosi belga quanto congolese, da allora non ha mai fatto ritorno nella terra dove è nato.