Gli accordi di Minsk cadono a Debaltsevo. La Russia piglia tutto

Gli accordi per un cessate il fuoco firmati a Minsk lo scorso 12 febbraio tra i leader di Russia, Germania, Francia e Ucraina, non sono durati che il tempo di un respiro. Già nella notte del 13 febbraio le autorità di Kiev denunciavano l’ingresso in Ucraina orientale di una colonna di cinquanta blindati provenienti dalla Russia. I timori, poi dimostratisi fondati, erano che si trattasse di rinforzi per le truppe filorusse concentrate nell’assedio di Debaltsevo, scenario degli scontri delle ultime settimane. La tregua, che avrebbe dovuto entrare in vigore dalla mezzanotte del 15 febbraio, prevedeva un ritiro delle truppe da entrambe le parti per creare una zona di sicurezza (50 km nel caso di sistemi di artiglieria del calibro di 100 mm, e più di 140 km per i lanciarazzi) ma i separatisti hanno sostenuto che Debaltsevo non era compresa negli accordi di pace. Tuttavia, a leggere i documenti ufficiali diffusi in primo luogo dal Cremlino, questa eccezione agli accordi non compare da nessuna parte.

Ora Debaltsevo, importante snodo ferroviario tra le roccaforti separatiste di Lugansk e Donetsk, è caduta in mano ai filorussi e l’esercito ucraino è frettolosamente ripiegato verso l’interno del paese con il suo carico di rottami e di feriti. Il morale delle truppe di Kiev è ai minimi, come dimostrano le molte diserzioni, e Poroshenko chiede che siano i caschi blu dell’ONU a vigilare su quel che resta degli accordi di Minsk.

Accordi che sono stati fin da subito salutati dalla stampa occidentale come un successo della diplomazia europea, al punto che il New York Times ha azzardato un paragone tra Angela Merkel e John F. Kennedy, ma che – a ben vedere – hanno visto in Vladimir Putin il vero e unico vincitore. Dopo quindici ore di trattativa, il risultato è stato un documento in tredici punti che poco si discosta da quello siglato, sempre a Minsk, il 4 settembre scorso e mai rispettato dalle parti in conflitto.  Tale documento sanciva un cessate-il-fuoco in vigore dal 15 febbraio, e prevedeva la creazione di una zona cuscinetto tra i due fronti, aprendo a una possibile riforma costituzionale in senso federale per l’Ucraina.

Vladimir Putin, durante una conferenza stampa rilasciata al termine della riunione, ha dichiarato : “Non è stata la notte migliore della mia vita, ma abbiamo raggiunto un accordo per far cessare i combattimenti, ed era la cosa che contava di più”. Ma i motivi per rallegrarsi a Putin non mancavano. Anzitutto perché il raggiungimento dell’intesa scongiura l’applicazione di nuove sanzioni a carico della Russia, come confermato dal primo ministro finlandese Alexander Stubb. In secondo luogo, i separatisti non vedono compromesse le conquiste territoriali ottenute dal 4 settembre in poi. E’ vero che, in base al secondo punto dell’accordo, dovrà avvenire un ritiro delle truppe da entrambe le parti per creare una zona cuscinetto ma è anche vero che l’esercito ucraino dovrà assestarsi oltre l’attuale linea del fronte. Un fronte che negli ultimi mesi è molto penetrato nel territorio ucraino, arrivando a Novoazovsk e Mariupol e che, adesso, comprende anche Debaltsevo. Infine, stando al quarto punto dell’accordo, nelle regioni di Lugansk e Donetsk dovranno tenersi elezioni locali sulla base di una legge, firmata dopo il primo accordo di Minsk, che prevede uno status speciale di autonomia per le due entità. Entro fine anno, inoltre, il governo di Kiev è chiamato ad approntare una nuova costituzione che – pur non parlando apertamente di federalismo – dovrà garantire la decentralizzazione delle due regioni separatiste consentendo loro ampia autonomia politica ed economica, oltre alla creazione di una milizia locale. Un’autonomia che sarà ovviamente esercitata a favore degli interessi russi.

Kiev è costretta a piegare la testa in nome di una “pace” che puzza di appeasement. La sovranità ucraina esce da questi accordi fortemente compromessa. Non è vero, infatti, che l’accordo garantisce l’integrità territoriale del paese perché la Crimea, che non è nemmeno stata citata durante i colloqui, resta saldamente in mani russe malgrado quell’annessione violi tutte le norme del diritto internazionale. La presa di Debaltsevo dimostra, una volta di più, la cattiva fede del Cremlino ma anche la sua posizione di forza di fronte a un’Europa che non vuole intervenire militarmente a supporto di Kiev e che cerca un compromesso al ribasso. Durante la Conferenza di Monaco del 6 febbraio scorso la Germania ha posto il veto all’invio di armi all’Ucraina malgrado le pressioni degli Stati Uniti. Una scelta improntata al realismo da parte di Angela Merkel, donna che parla il russo, cresciuta nel cuore della Guerra Fredda, e assai più capace di penetrare la logica politica russa di quanto non possa fare il suo omologo americano. Il cancelliere tedesco sa bene che una Russia minacciata non si ritrae ma raddoppia la posta. E in palio non c’è il Donbass ma l’Ucraina intera, obiettivo strategico fondamentale per la Russia. Diceva Zbigniew Brzezinski, consigliere militare del presidente Carter, che “la Russia senza l’Ucraina non può ambire ad essere una potenza mondiale”. Sottrarre l’Ucraina al controllo di Mosca è il sogno proibito dell’occidente ma mantenerne il controllo è per la Russia una questione di vita o di morte. Per questo Putin è disposto a molto, molto di più di quanto è disposto a fare l’occidente.

Dopo la presa di Debaltsevo è possibile che il cessate-il-fuoco deciso a Minsk venga rispettato, ma ad onta dell’accordo stesso. Il “successo” diplomatico di Merkel e Hollande si è subito mostrato un sottile velo dietro cui è arduo nascondere il fallimento. Senza un appoggio militare da parte della Nato, l’Ucraina è destinata a essere lentamente erosa dalle forze filorusse. Ma uno scoperto intervento occidentale non potrebbe che portare a una escalation del conflitto. In questo vicolo cieco, c’è chi non trattiene lo spavento. I paesi baltici da tempo chiedono una maggiore presenza della Nato e la Gran Bretagna – che di appeasement sa qualcosa – denuncia il rischio di destabilizzazione di Lettonia, Lituania ed Estonia da parte del Cremlino. Presto i mastini della guerra torneranno a scatenarsi finché un (assai probabile) terzo incontro a Minsk non li rimetterà al guinzaglio. Ma per quanto?

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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