La morte assurda di Boris Nemtsov

La morte di Boris Nemtsov, politico liberale ed esponente dell’opposizione russa, è assurda. Non era un uomo potente, guidava un partito marginale d’ispirazione liberale, e certo non rappresentava una minaccia per l’inquilino del Cremlino. E’ stato ucciso a Mosca, una città dove è difficile fare duecento metri senza incrociare un agente di polizia, e per di più a due passi dal Cremlino, su quel ponte Bolshoi Moskoretski che conduce dritto al centro del potere politico russo. I filmati registrati dalle telecamere mostrano un camion rallentare, poi Nemtsov a terra, cadavere, e un’auto in fuga.

Difficilmente si saprà qualcosa più di questo. Un’indagine verrà fatta, e il presidente Putin ha già avocato a sé la responsabilità dell’inchiesta (e quindi il suo controllo). Forse prima o dopo si arriverà a individuare l’esecutore materiale, ma un omicidio politico – non solo in Russia – non si risolve scoprendo chi ha premuto il grilletto. Tuttavia è prematuro indicare in Putin il mandante dell’omicidio: in un momento in cui il leader del Cremlino soffre l’isolamento internazionale, deve affrontare sempre maggiori problemi economici, combattere una guerra, gestire i mal di pancia dentro il palazzo e quelli di un’opinione pubblica che – seppur minoritaria – è composta da quella classe media necessaria allo sviluppo economico del paese, ecco, in un momento così delicato sarebbe stato stupido, da parte di Putin, ordinare la morte di Nemtsov. E Putin non è uno stupido.

L’opposizione ritiene che, in ogni caso, Putin sia almeno il responsabile politico poiché è alle sue retoriche nazionaliste che si deve il clima di intolleranza verso coloro che si macchiano di tradimento verso “la patria in pericolo”. Non si può escludere che la propaganda del Cremlino, massicciamente diffusa da un sistema dell’informazione saldamente nelle mani del palazzo, abbia potuto inquinare a tal punto la società russa da muovere la mano di qualche esaltato. Ci sono però anche altre possibili spiegazioni per la sua morte. Nemtsov, secondo i suoi collaboratori, stava infatti per diffondere un dossier che provava il coinvolgimento russo nella guerra Ucraina ed era per questo nel mirino di Putin. Certo inquieta quella dichiarazione, “Putin mi vuole uccidere”, rilasciata pochi giorni prima della morte. Come inquieta il fatto che in Russia mettersi contro Putin significa, assai spesso, morire in circostanze poco chiare. I media governativi hanno avanzato ipotesi fantasiose: dall’estremismo islamico a una questione di donne, fino al regolamento di conti, suggerendo così che Nemtsov fosse uomo da bordello e frequentazioni mafiose.

La stampa europea l’ha descritto come un campione della democrazia, un leader integerrimo e coerente dell’opposizione a Putin. La verità, probabilmente, sta nel mezzo. Boris Nemtsov iniziò la sua carriera politica in quegli anni turbolenti e inattesi che in Russia vanno sotto il nome di “perestrojka”. A fine anni Ottanta si era distinto come attivista democratico tra i più radicali e nel 1989 venne eletto al Soviet supremo dei rappresentanti delle repubbliche russe, una delle due camere in cui si divideva la politica sovietica. La sua elezione fu resa possibile grazie alle riforme democratiche di Gorbacev, che consentivano l’elettorato attivo e passivo per un terzo dei rappresentanti delle camere. Ma come molti democratici liberali dell’epoca, Nemtsov non voleva riformare l’URSS, voleva distruggerla aprendo rapidamente all’economia di mercato e al multipartitismo.

L’esponente di spicco di quest’ala di liberisti “duri e puri” era Boris El’cin, con cui Nemtsov si alleò presto. Quando El’cin destituì Gorbacev, nominò Nemtsov governatore a Nizhny Novgorod, la regione dove si trova la città omonima, una delle più grandi della Russia. Nemtsov aveva solo 32 anni e un futuro luminoso davanti. In quegli anni divenne amico di Egor Gajdar, primo ministro nel 1992, e Anatolij Ciubais che nello stesso anno era presidente del Comitato per le privatizzazioni. Tutti e tre erano sostenitori di una concezione del libero mercato altamente ideologizzata e irrealistica che portò a un aumento dei prezzi di ben ventidue volte rispetto all’anno precedente. Nel 1993 i prezzi decuplicarono ancora. Le privatizzazioni consegnarono in mani straniere buona parte dei settori strategici russi; l’agricoltura russa – scarsamente competitiva – perse produttività;  il livello di vita della popolazione si trovò presto al minimo vitale; l’aspettativa di vita, nel periodo 1986-2001, cadde da 65 a 57 anni nel 1994; la mortalità aumentò del 14%.

Non c’è da stupirsi se il Congresso dei deputati del popolo e il Soviet supremo (organi che la nuova Russia aveva ereditato dall’URSS) condannarono con voto maggioritario la politica economica del governo e tentarono di far scattare l’impeachment contro El’cin il quale, tuttavia, resistette nominando una commissione incaricata di redigere la prima Costituzione russa che istituì un sistema fortemente presidenziale e scarsamente democratica. In queste delicata fase, Nemtsov fu fedele a El’cin che nel 1997 lo nominò vicepremier. Sembrava destinato a diventare presidente, dopo El’cin, e alcuni sondaggi dell’epoca gli assegnavano un gradimento del 50%, ma l’avventura durò poco: travolto dalla crisi economica, il governo del primo ministro Cernomyrdin venne dimissionato aprendo la strada alla nomina di Putin. Nemtsov dovette farsi da parte, l’epoca dei liberisti era finita.  Emarginato, annoverato dalla retorica putiniana tra i colpevoli di aver “svenduto” la Russia, Boris Nemtsov si riciclò come attivista.

Non fu mai coinvolto nei processi di corruzione che caratterizzarono la prima fase della presidenza di Vladimir Putin, e fondò un nuovo partito, l’Alleanza di Destra, proprio con Ciubais e Gajdar, raccogliendo appena il 2% dei consensi (6 milioni di voti). Non è mai stato un oppositore radicale di Putin, preferendo tenersi sempre in seconda linea e lasciando spazio ad altri, come Navalny, pur spendendosi molto nell’organizzare manifestazioni e proteste come quella che, nella giornata di domenica 2 marzo, ha portato in strada dalle ventimila alle settantamila persone. Non molte, per una città come Mosca, ma abbastanza in un paese annichilito da vent’anni di putinismo. Una manifestazione che chiedeva la pace in Ucraina, accusando il Cremlino di essere responsabile dell’aggressione a un paese “fratello”. Qualcosa ancora si muove in Russia, non tutte le coscienze sono addormentate, ma restare svegli è una colpa che troppo spesso si paga con la morte.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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