Putin sta perdendo la sfida della modernizzazione

Un proverbio russo recita: “la Russia non ha un cammino, ma solo direzioni”. Quello della modernizzazione economica, la modernizastya, è stato per la Russia un obiettivo inseguito – e sempre mancato – fin dai tempi di Pietro il Grande. Si è però trattato di un percorso incoerente nel quale le direzioni intraprese sono state molte senza che nessuna portasse agli esiti sperati: dal liberismo del Conte de Witte al riformismo di Stolypin, dal comunismo di Stalin alla perestrojka di Gorbacev, l’economia russa ha risentito dei molti stravolgimenti storici che hanno segnato la vita del paese. Con l’arrivo di Vladimir Putin, nel 1999, si è avviato un nuovo promettente ciclo economico che la crisi del 2009 e la guerra in Ucraina, con le relative sanzioni e la crisi del rublo, stanno minando in profondità.

Durante i primi due mandati presidenziali di Putin (2000-2008) la Russia ha trovato nella politica estera una chiave per favorire la stabilità interna e la crescita economica, stringendo relazioni importanti con la Cina e l’Europa. Con quest’ultima ha siglato, nel maggio 2010, una “partnership per la modernizzazione” che tradotta in soldoni valeva 87 miliardi di euro di esportazioni dall’Europa (6,5% del totale) e 155 miliardi di importazioni (10,4% del totale) nel 2012. Al contempo Mosca ha cercato di diversificare la propria economia per renderla meno dipendente dalle risorse energetiche (Giusti, ISPI 2011). La Russia cercava così di guarire da quel “male olandese” che affligge le economie dipendenti dall’esportazione di risorse naturali. Uno sforzo che si è scontrato con la crisi del 2009. In quell’anno il Pil russo passato da un più 9% a un meno 8%  (il dato peggiore del G20). Un dato che, come ricorda Philip Hanson in The economic development of Russia: between state control and liberalisation (ricerca del 2010 finanziata dal Ministero degli Esteri italiano), non si deve alla crisi del petrolio poiché altri Paesi che sono importanti esportatori di oro nero hanno subito un declino molto modesto. I motivi della crisi russa andrebbero quindi cercati nella sua complessiva arretratezza economica che rende le prospettive di crescita tutt’altro che rosee: la ripresa è stata timida, solo un 3% di crescita media del Pil negli ultimi tre anni con un outlook del Fmi che prevedeva il 3,2% medio annuo fino al 2020 (dati Banca Mondiale).

La guerra in Ucraina ha però ulteriormente complicato il quadro al punto che il Fondo monetario internazionale ha rivisto al ribasso le sue stime, prevedendo un calo del Pil nel 2015 del 3,0% e dell’1% nel 2016 (a fronte di una previsione nel bollettino di ottobre 2014 di +0,5% nel 2015 e +1,5% nel 2016), mentre la Banca Mondiale parla di una diminuzione del Pil nel 2015 del 2,9%. Le sanzioni che l’Europa e gli Stati Uniti hanno applicato nei confronti della Russia sono state la causa di questo declino: inizialmente poste più come misura simbolica, le sanzioni sono andate aggravandosi colpendo alcune aziende strategiche, quali Kalshnikov, Rosneft, Gazprom e Transneft, e stabilendo un divieto di accesso al credito a lungo termine per gran parte delle banche russe, intaccando così la funzionalità di tutto il settore bancario e creditizio russo. Pur richiedendo una certa cautela nell’accettarne le valutazioni, anche Standard & Poor’s ha recentemente declassato la capacità di credito della Russia, tagliando il rating BB+, per la prima volta da dieci anni, con tanto di outlook negativo.

Ma non finisce qui. Il rublo,  scambiato un anno fa a circa 47 rubli per un euro, vede adesso il cambio  a 76 con un deprezzamento del 60%Il petrolio (raffinato e non), che rappresenta più del 54% delle esportazioni russe, è passato da un valore al barile sul mercato di New York da circa 91$ di un anno fa a 53 $ di oggi, con un decremento di oltre il 40%. Il tasso di interesse, stabilito dalla Banca Centrale Russa, che un anno fa si attestava al 5,5%, è salito all’attuale 15% (contro lo 0,25% degli Stati Uniti e lo 0,05% dell’Europa). Le riserve della Banca Centrale Russa ammontavano a 498 milioni di dollari al 31 gennaio 2014, sono attualmente pari a 376 milioni, con un decremento di circa il 25%. Il tasso di inflazione su base annua ha toccato, in gennaio 2015, il 15%. Avviato il circolo vizioso, è difficile arrestarlo: molti investitori stanno lasciando la Russia a causa di un pessimismo diffuso per le sorti del paese. E questo malgrado non manchino elementi rassicuranti, come il rapporto debito/Pil che si attesta al 13,4% per il 2014 (in Italia supera il 130%) e un deficit  appena allo 0,5%.

A ben guardare i due eventi, la crisi economica e l’intervento in Ucraina, sono collegati. I contraccolpi politici della crisi del 2009 si sono fatti sentire nel 2012 quando, alla vigilia del voto presidenziale, il ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, criticò apertamente Putin mettendosi alla testa di una colonna di “modernizzatori” favorevoli a Medvedev e obbligando Putin a fondare un nuovo partito, il “Fronte popolare”, con cui sfidare – e vincere – quanti dentro Russia Unita lo volevano fuori dai giochi del potere in nome di un putinismo senza Putin”. Scrive Serena Giusti, in Russia’s foreign policy for the country’s stability, analisi pubblicata da Ispi, come Putin, allo scopo di mantenere il consenso, durante il suo terzo mandato abbia fatto sempre più ricorso al nazionalismo, al patriottismo, al tradizionalismo e alla repressione dell’opposizioneL’intervento russo in Ucraina rappresenta una reazione alla perdita di un ruolo economico strategico e, al contempo, una reazione al calo di consensi interno. Si tratta di un passaggio fondamentale: così facendo Putin rinuncia alla corsa per la “modernizzazione” (modernizastya) in nome di una politica estera muscolare. Un segno di debolezza più che di forza. L’annessione della Crimea e l’eventuale controllo del Donbass potranno restituire, in termini economici, quello che il paese ha perso con le sanzioni? Probabilmente no, ma la vittoria in Ucraina darà a Putin la possibilità di governare indisturbato per altri dieci anni. E forse più.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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