Un anno fa le stazioni dei treni di Budapest si riempivano di migranti che tentavano di proseguire il loro viaggio verso il nord Europa; la pressione sul confine ungherese meridionale diventava sempre più consistente provocando una crisi umanitaria e gli scontri di Röszke. Il governo ungherese, che inizialmente si trovò impreparato a gestire la situazione, decise la costruzione della recinzione al confine con la Serbia e l’inasprimento della concessione dello status di “rifugiato”. Misure che sollevarono critiche dalle associazioni umanitarie, dalla UE e da numerosi paesi, Austria e Germania in primis.
Ad un anno dalle decisioni di Orbán la situazione sembra però aver dato ragione al premier magiaro. La costruzione della recinzione non solo ha fermato il flusso di migranti, ma è diventata una soluzione messa in atto anche da altri paesi; mentre le politiche di accoglienza sono state ridimensionate in Austria e Germania, paesi che hanno avviato procedimenti di ricollocamento dei migranti negli stati di provenienza. Non solo, l’Austria che aveva accusato l’Ungheria di utilizzare uno “stile nazista” ha modificato la propria politica in base agli avvenimenti politici interni, aumentando i controlli e chiudendo quando necessario i propri confini, mentre nelle elezioni presidenziali di aprile, che verranno ripetute il 2 ottobre, l’esponente della destra nazionalista e anti-immigrati conquistava la prima posizione.
Le politiche di Orbán hanno aperto quindi una breccia e sono state riproposte da numerosi paesi, mentre del movimento “refugees welcome” che spopolava a Vienna nell’estate del 2016 rimangono solamente labili tracce. Gli attacchi terroristici e il crescere della tensione sociale nei confronti dei migranti nei paesi europei hanno rafforzato le posizioni di chi è contrario all’accoglienza. In questo clima politico Orbán è balzato alla ribalta come principale sostenitore della chiusura dei confini e della difesa dell’ “identità europea”, riscuotendo un successo politico che travalica i confini dell’Ungheria, diventando un esempio per numerosi partiti e movimenti politici.
Si arriverà così al 2 ottobre, quando parimenti al ballottaggio delle elezioni presidenziali in Austria, in Ungheria si svolgerà l’ormai famoso referendum sulle quote UE. “Volete o no che l’UE possa obbligarci ad accogliere in Ungheria, senza l’autorizzazione del Parlamento ungherese, il ricollocamento forzato di cittadini non ungheresi?” è la domanda alla quale i cittadini ungheresi dovranno rispondere. L’esito del voto sembra scontato. Le quote obbligatorie non sono state accettate di buon grado dai governi e dai cittadini dell’Europa centro-orientale, ed in realtà il sistema proposto rimane complicato e poco chiaro, ed ha già dimostrato la sua inefficacia.
L’Ungheria per i migranti rappresenta un paese di transito, ma con questo sistema ogni anno dovrebbe essere stanziata una quota di migranti da accogliere. I cittadini ungheresi sono a dir poco scettici a riguardo, in parte sono preoccupati dalla possibilità di aumento di cittadini extracomunitari provenienti dal mondo arabo, persone che oggi rappresentano una piccola comunità, ma negli occhi degli ungheresi il pericolo è che il paese possa seguire lo sviluppo demografico delle grandi città dell’Europa occidentale che in pochi anni hanno visto crescere in maniera rapida la popolazione straniera ed in particolare musulmana. Sembra scontata quindi la vittoria del No.
Un referendum che però non ha un chiaro potere attuativo, infatti il parlamento non può legiferare su questo. Diventa chiaro quindi come il voto ed il quesito esposto facciano parte di un progetto politico del Fidesz per la propria lotta in seno alla UE e all’interno della scena politica nazionale. Dal risultato infatti il governo di Budapest può solo rafforzarsi, potendo così aumentare la pressione nei confronti di Bruxelles ed isolare maggiormente le opposizioni ungheresi.
Sono proprio i partiti di opposizione quelli più in difficoltà. Se è chiara l’indicazione di voto dello Jobbik (destra radicale) che sosterrà il No e voterà come il Fidesz, è nei partiti della sinistra che non c’è una posizione comune.
Per il Sì è schierato solamente il piccolo Partito liberale (MLP) che cerca di acquisire visibilità nonostante una sconfitta certa. Gli altri partiti si dividono tra chi preferisce boicottare la tornata elettorale, il centro-sinistra (DK-Egyutt-MSZP), cercando quindi di invalidare il voto con una bassa affluenza, e chi invece propone di annullare la scheda elettorale. Tra questi ultimi c’è non solo MKKP, partito satirico che ha avviato una nuova campagna per rispondere alla propaganda del governo, ma anche il Comitato Helsinki che ha deciso di prendere una decisione forte su un voto politico nazionale, posizione inusuale per una ONG internazionale. Ma a sinistra ci sono anche altre posizioni. LMP, i verdi, criticano la politica dell’Unione ma anche la forma e la propaganda del governo e quindi probabilmente lasceranno libertà di scelta tra il No e l’astensionismo. Mentre il piccolo Partito Operaio Ungherese (membro della Sinistra europea fino al 2009) si è schierato contro l’ “aggressione della UE” e sostiene il fronte del No.
Ufficialmente la campagna elettorale partirà il primo settembre, ma già da alcune settimane il paese è invaso da cartelloni propagandistici del governo contro le scelte di Bruxelles. Una campagna, sia attraverso i cartelloni che nelle televisioni, dai toni allarmistici e dai contenuti aggressivi che non aiuta lo sviluppo di un dibattito “civile” su un tema così importante e delicato. Per alcuni osservatori il 2 ottobre potrebbe essere una data fondamentale per il futuro della UE, il voto in Ungheria e quello in Austria potrebbero colpire la fragile “baracca” istituzionale dell’Unione, uscita già in affanno dalla Brexit. Quello che è certo è che il referendum ungherese avrà principalmente due significati: il primo riguarda la stessa struttura della UE ed il futuro della politica di accoglienza; il secondo definirà i rapporti di forza interni alla politica ungherese, probabilmente ancora una volta a favore di Fidesz. In entrambi i casi non sarà decisivo tanto il risultato dei No, quanto piuttosto la partecipazione al voto e il numero delle schede valide.