La Turchia torna alle urne per superare una paralisi politica senza precedenti. Lo ha annunciato il presidente Erdogan venerdì 21 agosto, indicando come data possibile per le elezioni anticipate il 1 novembre. La decisione mette fine ai tentativi di formare un governo di coalizione che si sono protratti senza successo per tre mesi. Le elezioni del 7 giugno hanno costretto il partito AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, Partito Giustizia e Sviluppo) a cercare un’alleanza con le opposizioni, per la prima volta dal 2002. Infatti l’AKP ha ottenuto soltanto la maggioranza relativa dei seggi con poco più del 40% dei voti, complice l’ingresso in parlamento dell’HDP curdo (Halkların Demokratik Partisi, Partito Democratico Popolare) che ha di fatto impedito la formazione di un esecutivo monocolore. Così entro agosto Erdogan darà il mandato di formare un esecutivo di transizione per traghettare la Turchia alle urne. Ne dovrebbero fare parte tutti i partiti rappresentati oggi in parlamento, proporzionalmente ai seggi occupati, ma è possibile che vengano scelti anche personalità indipendenti o comunque non direttamente legate alla vita politica del paese. Secondo la costituzione questo esecutivo deve essere formato entro 5 giorni dal conferimento del mandato presidenziale.
Trattative caotiche
Negli ultimi mesi le trattative per raggiungere un accordo fra i partiti sono lentamente naufragate a causa di reciproci sospetti e indisponibilità. Oltre a AKP e HDP, hanno partecipato anche gli altri due partiti rappresentati in parlamento, i social-democratici del CHP (Cumhuriyet Halk Partisi) e i nazionalisti del MHP (Milliyetçi Hareket Partisi). Nessuna delle soluzioni abbozzate, però, è riuscita a raccogliere un consenso minimo. A ogni apertura, per quanto timida, è seguita una ridda di dichiarazioni contrastanti, veti incrociati e distinguo. Col solo risultato di ritardare quella che molti osservatori davano come unica risposta possibile già all’indomani del voto: elezioni anticipate. Il tentativo però era d’obbligo. Non soltanto per correttezza istituzionale, ma soprattutto perché ogni partito voleva evitare di essere additato come responsabile dell’impasse per non pagarne lo scotto in termini di consenso.
Continuano gli attentati in tutto il paese
Il dialogo tra i partiti è stato definitivamente incrinato dall’avvio delle operazioni militari contro lo Stato Islamico e soprattutto contro il PKK, le cui basi sulle montagne di Qandil vengono bombardate quasi quotidianamente dai caccia turchi. In un momento già particolarmente delicato per la Turchia, questa decisione ha trascinato l’intero paese in un vortice di attentati e sparatorie, che già avevano scandito i mesi di campagna elettorale. I militanti del PKK (in molti casi affiancati dai marxisti-leninisti del DHKP-C) per il momento riescono a controllare alcune sacche di territorio soprattutto nel sud-est del paese, a maggioranza curda, arrivando a organizzare posti di blocco in alcune città. Ma il clima resta teso anche nel resto della Turchia. Il 19 agosto, davanti agli uffici del primo ministro a Istanbul, le forze di polizia sono state attaccate con armi automatiche e bombe a mano.
L’HDP farà parte del governo di transizione?
In questo quadro, anche la formazione di un governo di transizione appare complicata. D’altronde, la costituzione prevede la possibilità di conferire un mandato esplorativo a una seconda personalità (in base ai risultati del 7 giugno il tentativo spetterebbe a un membro del CHP), ma Erdogan ha deciso di tagliare corto e andare direttamente alle urne. La risposta del leader del CHP è stata caustica: secondo Kılıçdaroğlu, in Turchia sarebbe in corso un colpo di stato “civile”, con la democrazia sospesa e la costituzione non rispettata. Se questa scelta potrebbe incrinare ulteriormente i rapporti con i social-democratici, ancora più fragile appare la partecipazione del HDP. Infatti il partito curdo, dopo l’attentato di Suruc del 21 luglio scorso, ha accusato l’AKP di aver volutamente riaperto il conflitto interno col PKK per sviare l’attenzione dell’elettorato dalla debacle elettorale, ricevendo come risposta un’accusa di connivenza con i terroristi.
Perché è fallito il processo di pace col PKK?
Ad ogni modo dietro al fallimento del processo di pace fra Turchia e PKK si annidano anche altri interessi. I successi dell’YPG in Siria preoccupano gran parte delle forze politiche turche, che vogliono impedire la creazione di un’entità curda lungo il confine. In questa direzione si possono leggere i raid contro il PKK e l’istituzione di una “safe zone” a nord di Aleppo. Per il PKK, che aveva attaccato l’esercito turco già prima della fine ufficiale del cessate il fuoco, una delle priorità è mantenere il controllo dei traffici che rappresentano un’importante fonte di finanziamento per il gruppo. Più dell’attentato di Suruc, quindi, è probabile che sia stata la recente stretta contro il contrabbando nel sud-est a preoccupare il PKK.
L’HDP regge nei sondaggi
Ma per il momento sembra che sia proprio l’HDP a trarre vantaggio dalla situazione attuale. Infatti i pochi sondaggi disponibili indicano che il partito curdo ha guadagnato consensi (circa un punto percentuale, attestandosi così attorno al 14%), mentre l’AKP è l’unica formazione a perdere voti, scendendo sotto la soglia del 40% ma restando sempre saldamente primo partito. In pratica, se si votasse oggi, nulla cambierebbe rispetto al 7 giugno: la Turchia dovrebbe tentare di nuovo di formare una coalizione di governo. E, in questo caso, repetita non juvant.
Come può pensare Erdogan ad un svolgimento di elezioni con una guerra Civile in corso?