TURCHIA: La tragedia di Suruç. “Uccisi i figli di Gezi Park”

Suruç è una piccola città turca a una decina di chilometri dal confine siriano. Appena fuori dalla città si trova il più grande campo di profughi siriani di tutta la Turchia. La città di Kobane, divenuta simbolo della lotta curda contro l’ISIS, è a mezz’ora di strada. Al di là dalla frontiera c’è il Kurdistan occidentale, noto semplicemente come Rojava (che significa, appunto, occidentale), dichiarato autonomo e difeso delle milizie curde delle YPG, le unità di protezione popolare di ispirazione marxista-leninista che combattono allo scopo di creare uno stato curdo indipendente.

Lo scorso 21 luglio decine di giovani, appartenenti alla Socialist Youth Associations Federation (SGDF) si sono ritrovati a Suruç per manifestare il proprio supporto alla lotta curda, con l’intenzione di recarsi successivamente a Kobane per portare aiuti alla popolazione. Non hanno potuto farlo. Un attentatore suicida si è fatto esplodere nel giardino dell’Amara Culture Center, dove i giovani si erano riuniti per una conferenza stampa. Sono morte trentadue persone in quello che è il primo attentato dell’ISIS in Turchia. Trentadue giovani, trentadue “figli di Gezi Park”, ammazzati da una giovane donna di diciott’anni appena, carica di esplosivo, che in virtù della sua giovane età ha potuto mischiarsi alla folla senza essere notata.

A rafforzare la pista jihadista è un attentato kamikaze quasi simultaneo avvenuto a Kobane, in un’azione che secondo le prime indagini pare coordinata. “Questo attacco è diretto contro la pace, la democrazia e la stabilità di tutta la Turchia, e non solo di un gruppo”, ha detto il primo ministro turco Davutoglu, che ha inviato sul terreno il suo vice e due ministri. In tutta la Turchia manifestanti sono scesi in strada per mostrare la loro solidarietà, mentre in alcune città del sud-est le proteste sono degenerate in scontri con le forze dell’ordine. Il governo turco è infatti da più parti accusato di essere troppo morbido nei confronti dell’ISIS. Un’accusa alimentata proprio dai curdi che, da mesi, combattono in Siria senza ricevere alcun appoggio dall’esercito turco. I curdi accusano Ankara di connivenza con l’ISIS, mentre Ankara – più che verso l’ISIS – si mostra blanda nel supporto alle milizie curde temendo che, a guerra finita, queste possano rivolgersi verso la Turchia stessa. Il progetto di creare uno stato curdo comprende anche il controllo delle aree a maggioranza curda della Turchia, un progetto cui i turchi guardano con aperta ostilità.

La Socialist Youth Associations Federation (SGDF) non è un’associazione della sinistra turca qualsiasi, essa è parte del Partito socialista degli oppressi (ESP), che è un partito politico d’ispirazione marxista-leninista che si definisce “un partito militante rivoluzionario che combatte per la creazione in Turchia e nel Kurdistan settentrionale di una repubblica federale socialista dei lavoratori”. A capo del ESP è stata, dal 2010 al 2014, Figen Yüksekdağ, oggi co-presidente del HDP, il partito democratico del popolo che alle scorse elezioni ha saputo raccogliere l’eredità di Gezi Park, ottenendo il 13,2% dei voti, profilandosi come partito di sinistra alternativo e democratico. Esiste quindi un collegamento diretto tra l’HDP e la causa curda, un collegamento che passa attraverso le sigle del marxismo-leninismo, da anni attive in Turchia.

La sigla più nota nella galassia dei movimenti rivoluzionari neomarxisti è quella del PKK, il partito curdo dei lavoratori. Dopo la strage di Suruç, il PKK ha dichiarato che le responsabilità del massacro vanno cercate nel governo turco, connivente con i fondamentalisti dell’ISIS, e ha per questo deciso di riprendere le armi. Così, il 22 luglio, due poliziotti turchi sono stati uccisi a colpi di pistola nella città di Ceylanpinar, nella provincia di Sanliurfa, la stessa di Suruç. L’azione è stata rivendicata dall’Hpg, il braccio armato del PKK, come forma di vendetta per l’uccisione dei 32 giovani. La polizia turca va punita, si legge nel comunicato del gruppo, perché “collabora con l’Isis”. Quindi, per punire l’ISIS, si “punisce” lo stato turco colpendo due poliziotti, ovviamente innocenti.

In questo quadro, la morte dei trentadue ragazzi e ragazze a Suruç diventa un elemento marginale. Quel che sembra importare, adesso, è come usare al meglio quelle morti: la causa curda, la guerra in Siria, l’opposizione a Erdogan, la lotta del PKK, tutto si mescola in un calderone ideologico e politico, tutto diventa strumento di retoriche di parte. Quel che è peggio è che, in nome di quei morti, c’è già chi promette altri morti poiché, come sempre accade, sangue chiama sangue.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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