Il PKK si è sciolto

Turchia: il PKK si è sciolto. E adesso?

Il 12 maggio 2025, dopo quarantasei anni di attività, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) si è sciolto. In una nota il Partito ha dichiarato che la questione curda è giunta “ad un punto in cui può essere risolta attraverso la politica democratica” e che il XII congresso ha “deciso di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e porre fine alla lotta armata”. Questa decisione era stata già anticipata dall’“appello per la pace e una società democratica”, scritto in carcere dal leader del PKK Abdullah Öcalan e reso pubblico lo scorso 27 febbraio.
Cosa succederà ora? Quale sarà il futuro della politica curda in Turchia? E come si porranno i movimenti curdi degli altri Paesi?

Il futuro della politica curda in Turchia

Secondo alcuni analisti, la fine della lotta armata del PKK potrebbe dare il via ad una nuova svolta nei rapporti tra la politica curda e il governo di Ankara. Ma è realmente così?
Non vi è dubbio che la deposizione delle armi da parte del movimento fondato da Öcalan potrebbe coincidere con l’inizio di un nuovo dialogo con il governo centrale. Basti pensare che il processo di pace è stato fortemente accelerato in seguito ad un incontro tra il leader del Partito del Movimento Nazionalista, Devlet Bahçeli, e Tuncer Bakırhan, co-presidente del partito filo curdo DEM. Considerate le opposte visioni su temi come l’integrazione delle minoranze etniche in Turchia, la stretta di mano tra i due ha assunto un significato ancora più simbolico.

Ma se da un lato questa svolta storica potrebbe rendere possibile l’istituzionalizzazione delle rivendicazioni curde in Turchia attraverso canali democratici, dall’altro vi sono diversi elementi che rendono il percorso più arduo.

Bisogna innanzitutto considerare il fatto che buona parte della leadership curda sia stata incarcerata da Erdoğan: a maggio 2024, un tribunale di Ankara ha condannato i leader curdi Yüksekdağ e Demirtaş rispettivamente a trenta e quarantadue anni di prigione; il novembre successivo diversi sindaci eletti del DEM sono stati rimossi dai loro incarichi per presunti legami con lo stesso PKK . La tattica utilizzata dal presidente turco infatti è stata spesso quella di associare il partito pro curdo di sinistra HDP al PKK, giustificando così ogni forma di repressione. Durante la campagna elettorale per le municipali del 2019, anno in cui perse Istanbul e Ankara, Erdoğan  – riferendosi all’HDP – giunse ad affermare che “qualora i terroristi fossero stati rieletti” sarebbero stati sospesi e i comuni commissariati. La Turchia, come anche Unione Europea e Stati Uniti, d’altronde, ha sempre classificato il PKK come un’organizzazione terroristica: questo ha permesso negli anni a Erdoğan di adottare delle politiche feroci nei confronti delle rapprasentanze politiche curde in nome della lotta al terrorismo. In più, negli ultimi mesi, il caso İmamoğlu ha dimostrato come l’autoritarismo di Erdoğan sia ulteriormente cresciuto.

Oltre alla politica autoritaria di Erdoğan, poi, è necessario tenere in considerazione anche la sua strategia elettorale. Il presidente turco da ormai vent’anni raccoglie consenso elettorale nelle fasce più conservatrici del Paese, che tendenzialmente non sembrano essere molto aperte ad un dialogo con le forze politiche curde, storicamente laiche e più progressiste. In più occasioni, durante le sue campagne elettorali, ha aizzato le folle descrivendo i suoi avversari curdi come dei terroristi da combattere. Nel 2017 ad esempio, in occcasione del referendum nei confronti del quale la politica curda si era schierata per il no, Erdoğan aveva affermato “Chi vota no fa il gioco dei terroristi”. Un metodo semplice che porta alla delegittimazione dell’avversario politico.

Di fronte a tale scenario, pare inevitabile il fatto che la rivendicazioni politiche della minoranza curda potranno trovare un’istituzionalizzazione solamente parziale e che proseguiranno gli arresti di politici curdi non graditi, soprattutto se dovessero rivelarsi avversari temibili.

Gli altri movimenti curdi

Oltre alle questioni relative alla politica interna, lo scioglimento del PKK potrebbe avere conseguenze anche al di fuori dei confini turchi.
Il primo gruppo che ne potrebbe subire le conseguenze è il Partito dell’Unione Democratica (PYD), da sempre ritenuto l’equivalente siriano del PKK. Negli ultimi mesi le milizie armate del Partito (YPG e YPJ) si sono trovate a fronteggiare gli attacchi aerei turchi nel Rojava, che non sono terminati nemmeno dopo la fine del regime di Assad . La fine del PKK potrebbe indurre a ritenere il PYD il nuovo rappresentante delle istanze curde a livello internazionale, ma la situazione è più complessa.

Le forze curde siriane si ritrovano attualmente in una fase storica delicata. Lo scorso 11 marzo è stata firmata un’intesa dal presidente siriano ad interim Ahmed al Sharaa e dal capo della Forze democratiche siriane Mazlum Abdi, che si basa sull’integrazione delle istituzioni della minoranza curda che governa il nord del Paese in quelle statali. Le forze curde siriane in questo momento hanno l’obiettivo principale di mantenere quell’autonomia territoriale guadagnata durante la guerra civile senza andare allo scontro con il governo di Damasco. Un obiettivo che alla lunga potrebbe rivelarsi più arduo del previsto, considerando anche la vicinanza dell’attuale leader siriano con il presidente turco, che ritiene il PYD un prolungamento siriano del PKK. Inoltre i movimenti curdi siriani rischiano di rimanere sempre più isolati, sia per i buoni rapporti tra Erdoğan e l’attuale amministrazione americana, che nel mentre ha anche legittimato la nuova leadership siriana, sia per l’impossibilità da parte dell’UE di rinunciare ad un alleato come il Rais Turco, troppo importante sia in ottica immigrazione che in ottica NATO.

Negli altri due Paesi che vedono una forte presenza curda le reazioni sono giunte maggiormente a livello istituzionale. Il ministro degli esteri iraniano ha parlato dello smantellamento del PKK come di “un passo importante verso il rifiuto della violenza e il rafforzamento della sicurezza”. Allo stesso tempo non sono arrivate prese di posizione in merito allo scioglimento del PKK da parte del PJAK, il principale movimento politico curdo iraniano. D’altronde i movimenti curdi in Iran sono sempre stati i meno rilevanti nello scenario internazionale, da sempre più focalizzati sulle questioni interne. Dall’Iraq invece, il governo si è dichiarato disponibile a ricevere le armi del movimento, con l’obiettivo di aiutare Erdoğan a far uscire la forza militare del PKK dalla Turchia. Reazioni positive sono giunte anche da Nechirvan Barzani, presidente del governo regionale del Kurdistan, che storicamente non ha mai avuto ottimi rapporti con il PKK. Il leader del KDP ha parlato di una nuova pagina politica nella regione, che apre la strada ad un dialogo autentico.

Non è dato sapere quale sarà il futuro della politica curda con lo smantellamento del PKK. La speranza è che questo non coincida con l’annullamento di importanti battaglie che il popolo curdo ha combattuto negli ultimi decenni.

Immagine: France 24

Chi è Marco Pedone

Classe 1999, una Laurea Magistrale in "Lingue e Civiltà Orientali" e un Master di II livello in "Geopolitica e Sicurezza Globale" presso l'Università La Sapienza di Roma. Appassionato di Vicino Oriente, area MENA e sport.

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