SLAVIA: I russi e il terrore dei tataro-mongoli. Ma Gengis Khan era cristiano

“Non è l’acqua che sale in primavera, non sono i flutti del mare che si sollevano. E’ la forza potente e maledetta dei tatari che si appressano a Kiev, e il vapore delle froge dei cavalli oscura già la luna nel cielo…”. Con queste parole un cantico del XIII secolo racconta l’immane terrore suscitato dall’arrivo di quelli che venivano chiamati tatari, un’enorme armata che invase l’Europa, guidata da Batu Khan, condottiero mongolo nipote di Gengis Khan.

I termini “mongolo” e “tataro” sono talvolta considerati equivalenti ma sappiamo che si trattava di due popolazioni differenti: i tatari erano un’antica popolazione turcofona stanziata nell’attuale Manciuria (il termine stesso deriverebbe dal manciù Ta ta me, ovvero “arciere”), e fu una delle cinque grandi tribù che costituivano l’orda che, dall’inizio del XII secolo, dominò la Mongolia e si spinse in Cina, Iran ed Europa. Il termine “mongolo” è quindi un termine ombrello, sotto il quale vengono raccolte tutte le popolazioni che nel passato, come oggi, parlano una lingua mongolica. Le lingue mongoliche appartengono alla famiglia delle lingua altaiche, come anche il turco. Esisteva quindi un apparentamento tra le popolazioni mongoliche e quelle turcofone (come i tatari, ma anche i cazari, i cumani o i protobulgari di cui abbiamo già parlato) e non deve quindi sorprendere che queste popolazioni si siano federate, secoli fa, dando vita al grande impero mongolo. Parleremo quindi in questa sede, e per le successive puntate, di “tataro-mongoli” per indicare le popolazioni che nell’alto Medioevo si spinsero fino in Europa orientale e la cui memoria è tutt’oggi serbata in Europa come sinonimo di razzia e distruzione.

Il termine “tataro” ebbe successo in Europa per via dell’assonanza con “tartaros“, termine greco con cui si indicavano gli Inferi, e davvero infernali furono per gli slavi quegli arcieri a cavallo, abili e feroci. Oggi i tatari della Crimea e della Polonia sono gli eredi indiretti di quelli giunti agli ordini di Batu Khan. Più in generale i “mongoli” sono passati alla storia per la barbarie con cui distrussero i giovani stati degli slavi orientali e per una volta il luogo comune corrisponde alla verità, benché non si trattasse di una brutalità fine a se stessa.

Il terrore mongolo

Gli slavi orientali avevano già avuto scontri con altre popolazioni turcofone, come i peceneghi o i cumani (detti anche “poloviciani”) i cui territori confinavano a a sud est con quelli dei principati russi. La lotta fra slavi e nomadi era però sempre stata subordinata alla necessità di non distruggersi a vicenda. Ai tataro-mongoli invece non interessa cercare una convivenza, ed è questo il primo elemento che stordisce gli slavi orientali:

“In quell’anno [1223] comparvero dei pagani di cui nessuno conosceva esattamente la provenienza, né chi fossero né che lingua parlassero né a quale fede né a quale tribù appartenessero. Tatari vengono chiamati […] Dio solo sa chi siano e noi ne parliamo a causa delle miserie che hanno cagionato alle province russe”

Quel che terrorizzava dei tataro-mongoli era l’apparente insensatezza della loro violenza e di fronte all’incomprensione quella brutalità diventava impossibile da combattere. Il Detto sulla distruzione di Rjazan’, risalente al 1237, mostra con quale ferocia le truppe di Batu Khan si dedicavano alla distruzione del nemico:

“Al sesto giorno gli infedeli marciarono sulla città, gli uni con il fuoco, gli altri con le macchine da assedio […] e conquistarono Rjazan’ al ventunesimo giorno del mese di dicembre. E penetrati nella cattedrale uccisero la principessa Agrippina e bruciarono nella cattedrale il vescovo con tutto il clero. Nella città uomini, donne e bambini furono sgozzati con le spade, altri annegati nel fiume. E i preti e i monaci furono sgozzati fino all’ultimo […] i templi di Dio furono distrutti e il sangue scorse sui sacri altari […] tutti furono uccisi, tutti bevvero dal calice della morte. E non rimase nessuno né per gemere né per piangere”.

La gratuità apparente del massacro, la ferocia sistematica, avevano l’effetto di seminare un terrore mai provato prima. Per i mongoli prendere Rjazan’ non fu saccheggio o distruzione, fu cancellare dalla mappa geografica la città e occorse un secolo perché Rjazan’ cominciasse timidamente a rinascere, avendo persa per sempre l’antica grandezza.

Stessa sorte toccò a Kiev, la regina della città russe. Nel 1240 le truppe di Batu Khan arrivarono alle porte della città e con queste accese parole Serapione di Kiev, archimandrita del monastero delle Grotte, descrisse la tragedia:

“Dio ha diretto contro di noi un popolo crudele che non ha risparmiato né la bellezza della fanciulla né l’impotenza degli anziani né la debolezza dei bambini. Il sangue dei nostri padri e dei fratelli come le piene ha irrigato la terra. La potenza dei principi e dei voivodi si è esaurita. Svanita è la nostra grandezza, scomparsa la bellezza del nostro paese. [… ]Taci orgoglio, la nostra bellezza non è più”.

L’idea mongola (e l’idea russa)

Prima di volgersi all’Europa i tataro-mongoli si scatenarono sulla Cina, assai più prossima. Era quello un impero potente e immenso, ricco e raffinato. Ma Gengis Khan indicò nella Cina il simbolo di tutta la decadenza della Terra: “Il cielo è stanco dell’arroganza e del lusso spinti all’estremo della Cina. Io vivo nella regione selvaggia del nord dove l’uomo ha delle inclinazioni che impediscono il formarsi dell’avidità e dei desideri. Io ritorno alla semplicità e mi volgo alla purezza”. E si dichiarò investito di una missione di conquista per volere di Tengri, il “cielo blu eterno”, forza soprannaturale tradizionale dei tataro-mongoli. La sua era una visione messianica ispirata a una saggezza armata che doveva unire i popoli delle steppe e spingerli nel comune destino di governo universale e rifondazione del mondo. Un’idea che non apparteneva ai popoli della steppa prima di lui. Un’idea che diede ai tataro-mongoli la forza di conquistare quasi tutto il mondo allora conosciuto.

Quella che muoveva i tataro-mongoli era una vera e propria ideologia che secondo alcuni studiosi sarebbe poi stata ereditata dalla Russia risorta dopo la fine del “giogo tataro”. Non è anche l’idea russa permeata da una visione messianica di rinnovamento del mondo? Non c’è forse un’assonanza tra le parole di Gengis Khan e quelle di Dostojevski che, nel romanzo L’idiota, scrive: “Abbiamo formato una grande nazione, arrestato per sempre l’Asia, sopportato grandi sofferenze ma mai abbiamo perso l’idea russa, quella che rinnoverà il mondo”?

Una vicinanza culturale?

Tuttavia pensare che fossero solo dei brutali invasori è sbagliato. Temujin, il futuro Gengis Khan (il khan “oceanico”) era forse di fede cristiano-nestoriana, religione che secondo alcune fonti avrebbe appreso in gioventù mentre era al servizio del khan della tribù dei Keraiti di cui sposerà la figlia, Borte, iniziando ad ampliare i propri possedimenti. Il culto nestoriano affermava come in Cristo convivessero due distinte “persone”, l’uomo e il dio, unite dal punto di vista “morale”. In sostanza Cristo era anzitutto un uomo che però conteneva, come un tempio, il dio. Bollata come eretica dal Concilio di Calcedonia (451 d.C.) si diffuse in Asia presso gruppi tatari turcofoni. Pur rimanendo fermamente ancorati alla tradizione religiosa delle steppe, i grandi khan non erano poi così distanti dalla cultura europea.

Un esempio di questa relativa vicinanza è la lettera che Ogodai, figlio di Gengis Khan, scrisse al Papa intimandolo a sottomettersi perché “così è voluto da Dio” e “tu verrai alla testa di tutti i re a offrirci servizio e omaggio” altrimenti anche l’Europa occidentale avrebbe conosciuto la furia dei mongoli. Fu poi il turno di San Luigi, re di Francia, che nel 1260 si vide recapitare una missiva in cui il gran khan Guyuk gli offriva un’alleanza contro i mamelucchi che in Egitto le stavano dando di santa ragione ai francesi. E il francescano Rubrouk, latore della missiva, scrisse nella sua Cronaca che il santissimo re stava per cedere all’offerta degli infernali “tartari”.

I tataro-mongoli non erano dunque estranei alla politica europea e la brutalità che essi adoperavano contro i nemici era per loro un modo per convincere gli altri ad arrendersi senza combattere, evitando nuove guerre. Ai loro occhi gli europei erano destinati ad essere sudditi del regno universale dei khan e la rivalità era solo temporanea, necessaria a imporre il volere di Dio. La grande pace avrebbe poi regnato sul mondo. I principi russi che non accettavano questo disegno divino erano ribelli contro Dio e per questo andavano distrutti.

Alcuni principi, come Alexander Nevski, scelsero di sottomettersi e fu grazie a loro che la Russia ha potuto risorgere, quasi due secoli dopo. La Russia è sopravvissuta grazie alla sottomissione, all’intelligente accettazione di una supremazia, e all’attesa che il potere dei khan si sgretolasse.. Ma in quei due secoli i russi si lasceranno anche “conquistare” da alcuni aspetti della cultura e della mentalità mongola che avrebbero poi integrato nel proprio modo di vivere e di pensare. L’eredità mongola sulla cultura e mentalità russa sarà argomento della prossima puntata.

 

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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