Sentenza Eternit, quando il diritto non coincide con la giustizia

Il diritto non coincide sempre con la giustizia. Ma lo scollamento tra diritto e giustizia non è ammissibile in una democrazia. Eppure questo scollamento c’è stato, ed è stato alla base della recente sentenza Eternit che ha mandato prescritto il magnate svizzero Stephan Schmidheiny nel maxiprocesso che lo vedeva imputato. Come ha ricordato il procuratore generale Francesco Iacoviello, la prescrizione è maturata al termine del primo grado. Pur riconoscendo la sussistenza del reato, Iacoviello ha sottolineato che, se il reato è prescritto, occorre attenersi alla legge anche quando questa non coincide con la giustizia. Ma quanto valgono le leggi se la giustizia non ha mezzi per vincere?

Secondo Iacoviello è stato un errore giuridico contestare il reato di disastro ambientale perché “non è giuridicamente possibile prevedere la permanenza di un reato che causa morti a distanza di parecchi decenni”. Insomma, dopo tutti questi anni il reato è decaduto e poco conta che i morti ci siano oggi poiché il mesotelioma maligno – il tumore provocato dall’amianto – ha un periodo di latenza che va dai quindici ai quarantacinque anni. “Anche se oggi qui si viene a chiedere giustizia”, continua Iacoviello, “un giudice tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto”.

L’urbicidio di Casale Monferrato

L’azienda che produceva l’amianto nella mia città, Casale Monferrato, si chiamava Eternit, nome che – non a caso – richiama all’eternità. La durata del materiale è la durata della malattia. Una malattia, il mesotelioma, incurabile. Puoi rimandare la morte, ricacciarla più in là di qualche mese, ma alla fine la malattia ti prende e uccide impietosamente. Ogni malato sa che non c’è rimedio, che è un condannato a morte. Meglio buttarsi dal tetto di casa che morire così – e qualcuno l’ha anche fatto.

Il picco di mortalità è previsto per il 2020. Oggi si ammala una persona alla settimana. I morti accertati sono più di tremila in una cittadina di poco più di ventimila abitanti. Tutti noi, nati e vissuti a Casale Monferrato anche dopo la chiusura della fabbrica, viviamo con questa spada di Damocle sulla testa. E oggi sappiamo che contro l’amianto non si può vincere. Né negli ospedali, né nei tribunali. Pur venendo riconosciuto il reato a Schmidheiny, nessuno pagherà, perché il reato è prescritto. Anche se i padroni della polvere, tra cui il signor Schmidheiny, sapevano. Sapevano che l’amianto era cancerogeno fin dagli anni Sessanta. L’omicidio di migliaia di persone e, di fatto, l’urbicidio di Casale Monferrato, non possono cadere prescritte. Ed è questa la strada che verrà battuta adesso, ricominciando da capo, per avere giustizia.

La giustizia non per i morti, ma per chi è ancora vivo

Una giustizia che non serve a noi condannati, e non serve ai malati e ai morti, né alle loro famiglie. Ora che finalmente lo scandalo di questa sentenza fa parlare l’Italia del caso Eternit, tutti sanno che a morire non sono solo gli ex operai. Perché dalla fabbrica usciva la polvere che ricopriva le strade, imbiancava i davanzali e i gerani. I bambini giocavano nella sabbia bianca, infetta, e respiravano la morte inconsapevoli. Oggi ci sono bambini così, che non sanno, in Brasile e in Russia e che giocano nella polvere bianca. Forse nemmeno le famiglie sanno. Ma lo stato sa. Eppure consente che la lavorazione dell’amianto prosegua in quei paesi.

E’ per salvare la vita a quelle persone che oggi i casalesi si incaponiscono. La missione di Casale Monferrato, città simbolo della lotta all’amianto, è questa: far capire al mondo che bisogna impedire la lavorazione dell’amianto. Ed è una missione difficile per chi non riesce nemmeno a vincere un processo nel proprio civilissimo (?) paese. Perché quella dell’amianto è una lobby potente, che tiene a libro paga esponenti della comunità scientifica che – pasciuti – si sgolano nel ripetere che l’amianto non fa male. Sono persino andati a Rio de Janeiro a parlare di sviluppo sostenibile.

Casale Monferrato è appena un grano di (in)giustizia. Perché sono 500mila le vittime d’amianto stimate in Europa entro il 2029, mentre l’estrazione e la lavorazione della fibra assassina sono in aumento grazie alla richiesta di Paesi dall’economia in feroce crescita, come Cina e India. I produttori, gli aguzzini, stanno altrove: Canada, Brasile e Russia.

La mafia dell’amianto nel mondo: Canada, Russia e Brasile

Il Canada è l’epicentro di questo dramma morale, maggior esportatore mondiale alla fine degli anni ’80 è ora il quarto produttore globale. Trattiene però in patria poco o nulla: ben il 97% della produzione si riversa sui mercati dei paesi in via di sviluppo dove l’amianto non é bandito. Nulla di male secondo i canadesi, ideatori della “teoria dell’uso controllato” che si basa sulla convinzione che nei paesi in via di sviluppo esistano le tutele lavorative, sindacali e tecnologiche per ridurre la polvere dell’amianto sotto i livelli di guardia. Il governo inoltre sostiene che l’amianto canadese, crisotilo o amianto bianco, non sia particolarmente cancerogeno. La lobby del crisotilo (Istitut du Chrysotile o Chrysotile Institute) é molto attiva nel finanziare le campagne elettorali canadesi ed incoraggia l’uso dell’amianto nel mondo. Per ben due volte ha tentato per via legale (attraverso il WTO, l’organizzazione mondiale del commercio) di fermare la messa al bando dell’amianto in Europa, entrata poi definitivamente in vigore all’inizio del 2005.

Ma i canadesi non muoiono? Sì, muoiono, eccome. Secondo i dati del ministero della Sanità canadese gli individui di sesso maschile del Quebec, area dove si concentrano gli impianti di lavorazione, registrano il quarto tasso mondiale di incidenza del mesotelioma mentre per le donne si registra la più alta incidenza di malattia al mondo. Nonostante questi dati siano di pubblico dominio, la maggior parte dei sindacati del Quebec difendono l’attività estrattiva dell’amianto. Anche la comunità scientifica locale è fredda.

Mai fredda come la coscienza russa, impassibile davanti alle evidenze mediche e alla comunità scientifica internazionale (è dal 1964 che si conosce la pericolosità dell’amianto). La Russia, dopo esser stato uno dei maggiori produttori durante l’oblio sovietico, produce oggi circa la metà dell’amianto mondiale ma nessun dibattito sulla pericolosità della fibra ha mai accompagnato la sua sua escalation industriale. In seguito al bando della Comunità Europea, la Russia di Putin ha instaurato una commissione di esperti per indagare la materia, ma il loro lavoro si è risolto nel 2002 con una protezionistica (e definitiva) difesa dell’amianto.

In Brasile, oggi quinto produttore mondiale e primo dell’America Latina, la produzione di amianto, estratto principalmente nella regione di Goias, ebbe un’incremento sostanziale nel decennio che seguì il golpe militare del 1964. Nelle metropoli ha preso la forma di cisterne d’acqua, tettoie, tubature, mentre le favelas delle grandi città sono dedali d’amianto. Nel paese latinoamericano il divieto di produzione e utilizzo è locale. Il mandato presidenziale di Lula si contraddistinse per lo sforzo (vano) di arrivare al divieto nazionale: la pressione dei lobbisti dell’amianto fu più forte e la questione uscì dall’agenda politica. Secondo Niccolò Bruna e Andrea Prandstraller, autori del documentario “Polvere. Il grande processo all’amianto”, gli esponenti sindacali che denunciarono azioni di pressione politica da parte dell’azienda attraverso l’elezione in parlamento di candidati “amici”, e gli ispettori del lavoro che rilevarono condizioni di produzione non conformi alla legge, sono stati intimiditiuccisi. Il giro d’affari di questa “mafia dell’amianto” (come l’hanno chiamata i due autori) si aggira intorno ai 250 milioni di dollari e vede il proliferare di migliaia di piccoli impianti di lavorazione – di cui molti illegali – dove non è infrequente che minori siano impiegati come manodopera a basso costo.

Osasco come Casale

La città brasiliana di Osasco, nello stato di San Paolo, fu fondata da emigranti italiani provenienti proprio dall’omonimo paese in provincia di Torino. Lì da decenni funziona uno stabilimento Eternit. I bambini di Osasco sono uguali a quelli che quarant’anni fa giocavano nella mia città, inconsapevoli  mentre dentro i loro bronchi rotola la morte facendosi il nido nel fiato, scavando la breccia che un giorno spezzerà loro il respiro. Nei bambini di Osasco i casalesi rivedono se stessi fanciulli, i propri fratelli e amici, morti.

Dall’Italia poteva e doveva partire un’iniziativa internazionale contro l’amianto che fermasse questa mafia mondiale. C’erano delegazioni da mezzo mondo ad accompagnare i famigliari delle nostre vittime in attesa di una sentenza di condanna con la quale far leva nei propri paesi contro la potentissima lobby targata Schmidheiny.  Ecco perché questa sentenza, questa archiviazione, è un atto di profonda ingiustizia. Ma in punto di diritto la giustizia non vale.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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3 commenti

  1. Uno schiffo! Ancora il procuratore Jacoviello! Mandatelo…in pensione!

  2. grande articolo. da divulgare ovunque. dove sono i reporter di una volta? chi lotta contro queste mafie in guanti bianchi? e dov’è la giustizia sostanziale?

  3. Sulla giustizia l’Itaia deve imparare dall’India

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