SLAVIA: Invasioni o migrazioni? La questione dell'identità etnica nel Medioevo

Ancora oggi buona parte della storiografia tende a sottovalutare l’importanza delle prime migrazioni dei popoli slavi in Europa avvenute a partire dal VI secolo e destinate a mutare l’aspetto del continente conferendogli, di fatto, l’attuale conformazione etnica. Migrazioni, quelle slave, avvenute in contesto già altomedievale, con i regni romano-barbarici sorti dalla disgregazione dell’impero romano che stavano in buona misura proseguendo, adattandola, la lezione della latinità. Alle migrazioni (o, come si diceva un tempo, “invasioni”) dei popoli barbari è dedicata sempre maggiore attenzione, ma raramente ci si ricorda degli slavi. Si sente spesso parlare dei germani, dei goti, degli unni, ma gli slavi no. Ma la colpa è loro, di quegli antichi slavi che, pur lasciandosi andare a qualche efferatezza, non sono riusciti a colpire l’immaginario dell’epoca: niente brutalità seriali, niente distruzioni di massa, ma un popolo agreste e piuttosto pacifico che adorava i suoi dei silvani. Così pacifici da essere, loro in maggioranza, subalterni ad altre popolazioni.

Non erano “etnicamente puri”

Per comprendere però la natura delle migrazioni slave occorre fare un passo indietro. Come vedremo prossimamente alcuni regni slavi, come quello bulgaro e kieviano, non sono regni effettivamente “slavi” ma entità in cui un’aristocrazia non-slava comandava su una popolazione in larga parte slava. Eppure quei regni non furono una vessazione nei confronti delle genti slave ma realizzarono una progressiva fusione tra differenti culture.

Occorre quindi capire come, nel Medioevo, le popolazioni (le gentes) non fossero gruppi etnicamente omogenei. Ne deriva che nessuna entità statuale possa dirsi “etnicamente pura”. E questo non vale solo per le popolazioni slave. I regni romano-barbarici, come pure i primi regni slavi, erano spesso il risultato della convivenza, e poi della fusione, di differenti elementi etnici.

La moderna storiografia (Wenksus, Wolf, Pohl, fino al nostro Azzara) supportata dai metodi di ricerca antropologici, nega assolutamente l’omogeneità etnica delle popolazioni barbare (fossero germaniche, iraniche o slave) che migrarono in Europa con sempre maggiore intensità a partire dal IV secolo d.C. Si tratta di una lezione importante poiché scardina e disinnesca qualsiasi rivendicazione etnico-nazionale del presente che sia basata su concetti di purità, tradizione, alterità ed esclusione. Concetti assai presenti nelle retoriche dei partiti etno-nazionalisti che, ad oggi, stanno avendo la meglio in Europa, abili a sfruttare le frustrazioni e le angosce del presente offrendo soluzioni consolatorie radicate in un passato mitico e inesistente.

Invasioni o migrazioni?

Ecco perché, prima di parlare delle migrazioni degli slavi, occorre dire di come effettivamente avvennero le grandi migrazioni dal IV al VII secolo d.C. Fino a tempi relativamente recenti, e ancora nei testi scolastici fino ai primi anni Duemila, passava la lezione che i barbari invasero, con violenza e saccheggio, l’impero romano e lo distrussero. Barbari rappresentati negativamente, con clave, pelli, senza cultura, che in orde si riversarono sulla civiltà latina.

Sappiamo bene che dal III al V secolo i barbari vennero accolti nell’impero romano, al fine di difenderne i confini, come popoli federati. L’istituto della foederatio, regolato e disciplinato attraverso precisi strumenti giuridici, poneva le popolazioni barbare come alleate cui veniva elargito un compenso per il servizio prestato: quello di difendere il limes dell’impero. Con il termine di foederati si potevano intendere sia truppe di differente entità numerica, sottoposte al comando dei propri capi e in genere impiegate presso le regioni di origine, sia popolazioni accolte entro i confini dell’impero per servire in armi e difendere i confini. Queste ultime erano soggette al regime dell’hospitalitas che prevedeva l’assegnazione di un terzo delle terre del territorio loro concesso. In questo modo quelli che erano nemici dell’impero ne diventavano alleati e difensori. E’ quanto accaduto, ad esempio, agli slavi che nel VII° secolo attraversarono il Danubio entrando in quello che era l’erede della romanitas, l’impero bizantino. Gli slavi stanziati a sud del Danubio si fonderanno poi con tribù turche delle steppe (i protobulgari) dando origine allo stato bulgaro, di cui parleremo in futuro.

Il sistema della foederatio era tanto più necessario da quando, raggiunta l’espansione massima, l’impero dovette impiegare l’esercito a scopo difensivo e non già d’espansione, con costi di mantenimento altissimi (la crisi economica che fu tra le cause dell’implosione dell’impero romano si deve anche all’eccesso di spese militari). Nel tempo l’esercito andò “barbarizzandosi”, facendo così proprie tecniche militari innovative (come la cavalleria) e permettendo ai capi delle popolazioni barbare federate brillanti carriere politiche: nominati magistri militum dell’impero, essi andarono formando una classe aristocratica parallela a quella senatoria, sostenuta dalle armi. Divennero molto potenti: uno di loro, Odoacre, nel 476 d.C. avrebbe doposto l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. A loro volta i popoli, grazie alla costituzione antoniniana, divennero cittadini di Roma anche nella forma oltre che di fatto. Alla fine del IV secolo l’impero era già “barbaro”. L’invasione, raccontata dall’intellighenzia latina e amplificata dalle cronache cristiane, non ci fu. Questi magistri militum erano chiamati, dai loro popoli, reges e la loro funzione, dapprima elettiva, andò assumendo caratteri di sacralità (che ritroveremo nel concetto di regalità medievale). Il passaggio al cristianesimo sancirà la dimensione verticale del potere, in quanto il re esercitava il potere “per diritto divino”. Un passaggio che per gli slavi, tradizionalmente comunitari con un sistema di potere orizzontale e “democratico”, fu una vera e propria rivoluzione culturale.

Gentes mescolate, l’identità etnica come scelta

La formazione delle popolazioni barbariche che, in quattro secoli, penetrarono in Europa, sfugge da qualsiasi facile connotazione geografica e pretesa omogeneità etnica. L’archeologia ci racconta di gentes barbariche dagli usi e costumi assai simili, di influenze reciproche, e i criteri oggettivi fin qui utilizzati per classificarle scivolano nell’impossibilità di tracciare linee precise. Il lavoro di Rinhard Wenksus sulle gentes dell’alto medioevo ha avuto notevole importanza nell’accantonare ogni parametro di definizione oggettivo, ossia percepibile dall’esterno (come lingua, costume, usi particolari) sulla definizione etnica delle gentes adottando piuttosto un carattere soggettivo, vale a dire che un individuo appartiene realmente a una comunità quando acquisisce piena coscienza di esserne membro e ne adotta quei caratteri esteriori di lingua, usi e costumi.

Tale adesione muove però da un assunto psicologico dell’individuo, da motivazioni interiori che pongono quindi l’appartenenza etnica sul piano della scelta personale. Più in generale sappiamo che le popolazioni dell’alto medioevo erano composte da gruppi di varia provenienza, unitisi durante le lunghe migrazioni, e che si riconoscevano in unica gentes quando ne condividevano, appunto, caratteristiche culturali nel frattempo modificatesi sia nel gruppo di origine che in quello di provenienza. A capo di tutto c’era poi il riconoscimento del potere e della leadership politica. E’ quello che Wenksus chiama “nucleo di tradizione”: un nucleo di individui socialmente eminenti di capi, guerrieri e talvolta sacerdoti capaci di proporsi come asse di aggregazione e detentori dei caratteri di un’identità etnica cangiante e adattabile.

Questo nucleo di tradizione è, ad esempio, quello turco che fondò e guidò lo stato bulgaro, oppure quello normanno che diede origine alla Rus’ di Kiev. Gruppi dirigenti non slavi per stati a maggioranza slava.

Infine, come è ovvio, le popolazioni barbariche dell’alto medioevo non chiamavano sé stesse con il nome che loro attribuiamo oggi: longobardi, vandali, germani, sono (ed erano) denominazioni attribuite dall’esterno, in questo caso dall’intellighenzia latina. Gli scrittori latini attribuivano nomi e caratteristiche rigide alle popolazioni che incontravano, in quanto per loro i popoli barbari non mutavano. Tacito, nel suo trattato sui popoli germani, li accomuna su base geografica, senza tenere conto delle profonde diversità di quei popoli, diversità via via assottigliatesi con la formazione di gruppi più ampi ma che ancora nell’alto medioevo erano presenti. Eccezione fa il termine “slavo” che, come vedremo prossimamente, ha un’origine oscura.

Il fatto che le popolazioni che fondarono quelli che sarebbero diventati, attraverso molte modificazioni, gli stati europei, non fossero etnicamente omogenee disinnesca qualsiasi possibilità di etno-nazionalismo, almeno a livello scientifico. A livello politico c’è invece chi è riuscito a convincere gente che parla la stessa lingua e che in antichità era un solo popolo, della loro irriducibile diversità, Si parla degli slavi del sud, naturalmente, sulla cui origo torneremo in futuro. Molta carne al fuoco che s’intende cuocere tutta, un po’ alla volta.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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