Russia

Commedianti, polemisti e professori. La propaganda russa in Italia e le sue radici

“I russi come gli ebrei durante il nazismo”, e altre frasi che non vogliamo più sentire. Da anni la propaganda russa ammorba tivù, giornali, riviste di geopolitica. Basta prendere in giro i cittadini …

Non è nostra abitudine prendere parte a polemiche. Non siamo nessuno per dare patenti di serietà alla gente. Facciamo il nostro lavoro e basta, il pubblico saprà scegliere – ci diciamo – saprà riconoscere un’informazione che cerca di essere fondata e oggettiva da una fesseria sentita in tivù. Vero è che dall’inizio della guerra in Ucraina, di fesserie ne abbiamo sentite tante – da quelli che è tutta colpa della NATO a quelli che gli ucraini sono tutti nazisti, quelli che la pace la pace la pace così Putin la vince, quelli che le sfere di influenza, la geopolitica e lo scontro di civiltà – con ragionamenti talvolta al limite dell’assurdo.  E, come diceva Totò, ogni limite ha una pazienza.

Una questione di gusto

La questione è solo di buon gusto, di decenza ecco. Ma la decenza non è di casa nei talk-show di mamma RAI che, dando cartabianca al pressapochismo, inventa polemisti e improvvisati esperti che fanno audience facile, commedianti quali sono, e gli spettatori da far fessi. E poi tutto rimbalza sui social media, generando traffico, pubblicità, lucro lucro lucro e del dovere dell’informazione chissenefrega. Così il professore sedicente esperto, in un suo video in cui cerca di spiegare cosa sia il Memorandum di Budapest e si chiede se la Russia l’abbia davvero violato, cita l’articolo di un certo “William J. Ampio”, pubblicato dal New York Times, traducendo ad mentula canis e con evidente supporto di Google Translate anche il nome dell’autore, William J. Broad. Su questa buccia di banana il professore è stato crocifisso, perché non c’è nulla come una risata a seppellirti. Ma le sue frodi gli sopravviveranno: quella che la guerra è colpa dell’Occidente; che Zelens’kyj manda al macello il suo popolo; che in Donbass stanno tutti col Cremlino; che è meglio arrendersi alla Russia o sarà catastrofe nucleare.

Una propaganda d’antan

Se fossero idee sue, per carità. Recita il detto che le idee sono come i coglioni, ognuno c’ha i suoi. Ma non sono idee sue, sono idee del Cremlino – diffuse capillarmente da anni di informazione simpatetica alle cosiddette “ragioni di Mosca”. La strategia russa per influenzare l’opinione pubblica occidentale non è cosa nuova, ed è passata anche dall’acquisizione di importanti testate giornalistiche europee. Negli ultimi due decenni oligarchi vicini al Cremlino hanno comprato importanti pacchetti azionari di quella che, al tempo dei soviet, si sarebbe detta la “stampa borghese”: France SoirThe IndipendentThe Evening Standard, sono gli esempi più noti. Un inserto, dal titolo Russia Oggi, è stato pubblicato per un paio d’anni insieme al quotidiano La Repubblica, all’epoca proprietà del Gruppo L’Espresso.

La rivista col nome latino

Lo stesso gruppo editoriale pubblicava la rivista di geopolitica dal nome latino che ospitava, nel suo board, personalità legate o dipendenti da Gazprom e satelliti. Già nel 1996 raccoglieva articoli dal titolo raggelante, come “E se ricostruissimo il Patto di Varsavia?” oppure “Come rifare l’Unione Sovietica in dieci anni” o le folli teorie di Gennadij Zjuganov sulla “potenza come destino”. Addirittura, nel 2009 la rivista usciva con un numero dal titolo “Eurussia, il nostro futuro?” accogliendo l’opinione “di tre autorevoli analisti russi” tra cui Vitalij Tretjakov, uno che recentemente ha detto che “la Russia ha il diritto di ribellarsi all’egemonia americana” attaccando l’Ucraina. La stessa rivista, benché sia cambiata la proprietà, non ha cambiato linea editoriale e continua indefessamente a proporre il punto di vista russo sulla guerra – cosa di per sé non sbagliata se fosse accompagnata da analisi critica – ribadendo i caposaldi della propaganda russa: che il conflitto sia una guerra civile, che la stretta energetica russa distruggerà la nostra fragile economia, che l’Unione Europea è debole e passiva, che ci converrebbe una santa alleanza con il Cremlino fondando insieme la fantomatica Eurasia.

Ancora nel 2022 ha pubblicato un articolo dello stesso Tretjakov, a riprova della continuità nell’approccio filorusso, in cui lo studioso russo si dice convinto che “la presente rivista [Limes, n.d.r.] [sia] probabilmente l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE”. Povero Tretjakov, costretto a scrivere in territorio di schiavi intolleranti (tutta Europa tranne Limes) lo obbliga infine allo sfogo vittimista: “Ritengo che non sia tempo di soffermarsi su ragionamenti complessi nel rivolgersi al pubblico dell’«Europa» contemporanea, dato che vi regna una propaganda primitiva e russofoba e che le opinioni dissenzienti non soltanto non vengono recepite, ma nemmeno espresse“. E quindi ciccia, non ce lo spiega a noi primitivi che la Russia ha ragione. A noi, Europa tra virgolette, perché laica e democratica. E tutto questo su una rivista che ancora molti – troppi – ritengono di buon livello.

La destra destra e l’educazione siberiana

Qualche anno fa, precisamente il 2015, all’università di Pavia si svolgeva un dibattito dal titolo “Russia, Occidente e crisi ucraina” organizzata da Azione universitaria, il movimento giovanile del neofascismo italiano (dove ha militato anche l’attuale primo ministro, Giorgia Meloni), il cui sottotitolo recitava: “La verità che i media occidentali non vi dicono”. Tra gli ospiti, Fabrizio Bertot, politico di Fratelli d’Italia, e Nicolai Lilin, scrittore e “socio onorario di Lombardia Russia”, come recita il manifestino pubblicitario. Lombardia Russia è un’associazione fondata da Gianluca Savoini le cui finalità sono quelle di promuovere le attività russe in Italia, incluso lo sviluppo di relazioni tra uomini d’affari italiani e russi, e “diffondere le idee politiche russe tramite l’organizzazione di eventi culturali” come, appunto, il dibattito in questione.

Savoini, fondatore di Lombardia Russia e politico leghista, è attualmente indagato per un’ipotesi di corruzione internazionale relativa a presunti fondi russi ricevuti dalla Lega Nord. Lilin non esitò a definire “russofobia” l’inchiesta giudiziaria contro Savoini e le accuse di filoputinismo rivolte alla Lega. A nulla servirono le foto di Salvini con la maglietta di Putin, evidente quello non era “filoputinismo” ma collezionismo di magliette con sopra facce da culo. “Ben vengano i rapporti e il dialogo con la Russia“, disse poi lo scrittore, specie dopo le sanzioni che egli considerava “inutili e dannose”. “Per me è sempre doloroso leggere notizie in cui i russi escono dipinti come il male: prima lo eravamo perché comunisti, oggi perché competitor nello scenario geopolitico: c’è una russofobia in atto. Viviamo come gli ebrei nella Germania nazista prima che scoppiasse un vero e proprio odio razziale”. Era il 2019 quando Lilin proferì queste parole. La realtà di oggi le mostra per quello che sono.

Eppure l’Ucraina esiste

Complice la relativa ignoranza con cui in Italia si è sempre guardato all’estero, e la tendenza a farlo per assunti e schematismi, e dopo anni di inserti a pagamento, riviste amiche, educazioni siberiane, il cittadino ha finito per convincersi che Putin è grande e Lilin è il suo profeta. Dovremmo invece smettere di guardare all’Ucraina con quel paternalismo, un po’ coloniale, che ci fa dire che gli ucraini in fondo sono russi, che dovrebbero arrendersi, che i piccoli paesi vanno sacrificati nel nome dei pacifici rapporti tra le potenze, considerando questa guerra (e le precedenti rivoluzioni, ben tre) come espressione di volontà d’oltreoceano, eterodirette e fittizie.

L’Ucraina esiste, e non da oggi. Se non ce ne siamo mia accorti è perché abbiamo sempre guardato al mondo post-sovietico dal punto di vista russo. È ora di affrancarsi da questa visione, novecentesca e parziale, aprendoci a un dibattito che, benché plurale e critico, resti fondato sui fatti e non sulle balzane teorie, o prezzolate bugie, di sedicenti esperti da talk-show. Ci sono persone in Italia che studiano da anni l’Ucraina, ma raramente le ho viste invitate in televisione. I libri di Simone Attilio Bellezza, Giorgio Cella, Andrea Graziosi – tanto per citarne alcuni, in ordine alfabetico – hanno illuminato gli studi ucraini anche nella nostra lingua, affiancando i molti testi già pubblicati in lingua inglese ma certo meno immediati per l’analista medio che, come il sociologo di cartabianca dimostra, ha ancora bisogno di Google Translate.

Per una critica fondata sui fatti

Non c’è solo la propaganda, ma anche una visione del mondo post-sovietico che risente di una conoscenza della storia di quei luoghi appresa perlopiù attraverso la storiografia russa. Una visione che risente, almeno in parte, di un bias – di un’inclinazione o una fascinazione – verso la Russia, e di studi compiuti in archivi di Mosca piuttosto che di Kiev, Riga, Vilnius. Alcuni intellettuali di peso hanno assunto posizioni che, in modo più o meno esplicito, tradiscono questo bias verso la Russia. Recentemente Alessandro Barbero, noto medievista, ha partecipato a un incontro con Alessandro Di Battista – pasdaran del primo grillismo, oggi riciclatosi a intellettuale «contro» – in cui non si sono lesinate approssimazioni e ambiguità sulla guerra in corso (qui un bel debunking Barbero, per appassionati). Così come Luciano Canfora, classicista di fama, ha curato un volume collettaneo sul conflitto – con Cardini, Micalessin, Moni Ovadia, da destra a sinistra trasversalmente uniti nella difesa delle “ragioni di Mosca” – presentato nientemeno che in diretta tivù in Russia, nel programma di punta della propaganda di regime, condotto da Vladimir Solov’ëv, anchorman della TV di stato russa (non certo un media libero e indipendente).

Mesi fa assistemmo alla vile pratica delle liste dei filorussi pubblicate sui giornali e alla redazione di un dossier – con l’interessamento del Partito Democratico – in cui si citavano gli esponenti della propaganda filorussa in Italia. Un clima da caccia alle streghe deprimente, tanto più se a farlo sono giornali che in passato la propaganda filorussa l’hanno ospitata volentieri, come La Repubblica, o partiti che avevano nel loro padre fondatore, Romano Prodi, un fervente sostenitore della vicinanza con Mosca – tanto che gli fu offerta la presidenza del consorzio del gasdotto russo South Stream.

Gli intellettuali, i filosofi, i giornalisti, hanno tutti il diritto di dissentire, provocare, negare, ma partendo da una base di conoscenza specifica. Altrimenti sono chiacchiere che squalificano loro stessi in primo luogo. E poi squalificano i media che si prestano al gioco della polemica invece di  garantire il diritto a un’informazione corretta e rispettosa dell’intelligenza delle persone. Specialmente se si tratta di informazione pagata con i soldi dei contribuenti.

La redazione di East Journal ha scritto un libro, Ucraina, alle radici della guerra, affrontando i temi più controversi e dibattuti – dalle responsabilità dell’Occidente all’estrema destra ucraina, dai crimini di guerra in Donbass alle figure di Bandera e Zelens’kyj – con spirito di equilibrio ma senza ipocrita equidistanza e, soprattutto, cercando di restare ancorati ai fatti. Se volete, lo trovate qui.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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