Non dobbiamo avere l’impressione che la natura della crisi cecena sia diversa da quella delle crisi che coinvolsero l’area post-sovietica nei primi anni Novanta: anche qui, come altrove, ci fu una violenta de-industrializzazione, un’impennata della criminalità, una forte emigrazione, la diffusione di traffici illeciti e il saccheggio del patrimonio economico, con l’impoverimento della popolazione. Che cosa, quindi, ha reso la crisi cecena tale da portare a una guerra?
Una risposta sta nell’elemento dell’islamismo radicale, che vedremo dopo, penetrato nella regione e che è stato fonte di profonda destabilizzazione. Una seconda risposta sta nella peculiare personalità dei due leader che si fronteggiavano, Boris Elstin e Dzhokhar Dudaev, così simili da rendere – con la loro impulsività e irresponsabilità – la guerra cecena inevitabile. Una classe dirigente più matura e consapevole avrebbe potuto evitare il peggio ma non questi due uomini, soli al comando.
Anzitutto sia Elstin che Dudaev sono nati in un ambiente di assoluta povertà, eppure entrambe le famiglie hanno potuto godere dell’espansione delle istituzioni sovietiche seguita alla seconda guerra mondiale. Così Elstin, che ha potuto studiare e diventare ingegnere, è presto entrato a far parte della nomenclatura diventando funzionario del partito. A metà degli anni Ottanta venne chiamato a Mosca come segretario della locale sezione del partito. Dudaev invece ha frequentato l’accademia militare diventando pilota e avviandosi verso una brillante carriera. In Afghanistan, durante la guerra (1979-1989) non mostrò alcun segno di solidarietà verso i villaggi musulmani che programmava di bombardare. Non c’era, all’epoca, ancora nulla del nazionalismo ceceno o del tradizionalismo islamico che connoteranno la sua retorica politica successiva. Entrambi zelanti, capaci di distinguersi di fronte ai superiori, hanno potuto fare strada finché la struttura di potere sovietica è rimasta nei canali abituali. Quando, con la perestrojka, si sono aperte prospettive impreviste i due si sono smarriti: Elstin, che continuava a lanciare critiche al Politburo (e a Gorbacev) venne rimosso. Dudaev, che cominciò a manifestare troppo apertamente le proprie ambizioni politiche, venne licenziato e lasciato senza nemmeno un appartamento in cui vivere. Per questo si trasferì dal fratello, in Cecenia.
Una volta cacciati dalle gerarchie ufficiali i due vengono adottati dalle nascenti opposizioni che ne apprezzano le doti decisioniste e l’esperienza nelle istituzioni. Ma ben presto gli intellettuali dissidenti delle opposizioni vengono scalzati da uomini come Elstin e Dudaev, autoritari e carismatici. Così, mentre Elstin destituisce Gorbacev; Dudaev prendeva il posto di Zavgaev in Cecenia. I grandi progetti di rinnovamento di entrambi andarono incontro al fallimento: la Russia, come la Cecenia, si trovarono impoverite, con l’apparato statale a pezzi, depredate dall’interno e dall’estero. “Patriottismo ultimo rifugio delle canaglie”, diceva Lev Tolstoj. E così entrambi presero in mano la bandiera, parlando – fuori di metafora – da sopra un carro armato al popolo che cercava una guida capace di traghettarlo fuori dalle secche del post-sovietismo. La guerra venne così utile a entrambi: Elstin sperava di riguadagnare popolarità, e decise da solo (senza il voto del parlamento) di fare la guerra. Dudaev, da militare qual era, sapeva che avrebbe potuto soccombere ma non si ritrasse dallo scontro risolutivo.