Si continua a discutere attorno al cosiddetto “piano Trump” per la pace in Ucraina, un elenco di ventotto punti, poi ridotti a diciannove, che forse potrebbe gettare le basi per un vero negoziato. I governi europei, unitamente a quello ucraino, hanno introdotto modifiche al piano originario, ma la sostanza non cambia: si accolgono le richieste di Mosca. E sono le stesse di sempre: smilitarizzazione, russificazione, annessione delle regioni orientali e – ovviamente – niente truppe internazionali. Ma c’è qualcosa di più, una spartizione de facto (se non de iure) dell’Ucraina che, depredata delle sue risorse minerarie e fossili dall’alleato americano, si vedrà ora mutilata dei suoi territori da parte del nemico russo. La responsabilità storica di questo fallimento è tutta degli Stati Uniti e dell’Europa che, dopo roboanti promesse di riconquista, di “as long as it takes”, di adesione alla NATO e all’Unione Europea, hanno fatto il minimo indispensabile, e lo hanno fatto male. La superiorità militare euro-atlantica non c’è stata, e possiamo discutere all’infinito di quali armi bisognava dare, quali strategie attuare, ma non è stato fatto. I russi, quelli che si portavano via le lavatrici, sono in una posizione di vantaggio e possono avanzare pretese.
È convinzione di chi scrive che l’Occidente questa guerra non l’abbia mai voluta vincere davvero. Ci si è limitati a tentare un logoramento, economico e militare, che non ha avuto successo. E si è mandato mezzo milione di ucraini al fronte a crepare per questo. Mentendo. La loro morte pesa sulle nostre coscienze. Almeno su quelle di chi ha sempre sostenuto lo sforzo di autodifesa ucraino, unendosi al coro degli illusi e degli illusionisti, alimentando nell’opinione pubblica l’idea che questa guerra avesse un senso: la difesa di valori di libertà, la difesa del diritto. Tutte balle. Alle amministrazioni americane ed europee succedutesi in questi quattro anni non è mai fregato niente della libertà e del diritto. Hanno giocato, e hanno perso. Ecco cosa ha fatto la classe dirigente liberale. Ed ecco cosa abbiamo sostenuto noi, certo in buona fede, ma la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.
Resta solo la rabbia. La rabbia di aver tradito un popolo, di averlo mandato al macello promettendogli un sostegno che non è mai davvero arrivato. La rabbia di aver sostenuto un governo incapace, quello di Volodymyr Zelens’kyj, lambito da scandali di corruzione, con amichetti fuggiti a Tel Aviv per scampare alla galera (ogni riferimento a Timur Mindich è puramente voluto). La rabbia di essere guidati da un’élite europea vigliacca e ipocrita, che ora parla di riarmo. L’Ucraina non sopravviverà. All’Ucraina si vogliono imporre limiti nell’adesione alle organizzazioni internazionali, limiti nel numero di soldati, limiti territoriali e limiti nello sfruttamento economico delle proprie risorse. Tutto questo non è compatibile con la sovranità di uno Stato.
E per questo che si è combattuta, alimentata, finanziata, questa guerra? Ne valeva la pena?
E allora rimane una sola considerazione, assai pessimistica: alla fine avranno ragione quelli che invitavano alla resa immediata, ad evitare un’inutile strage. Alla fine avranno ragione i sostenitori del Cremlino, quelli con le magliette di Putin. Alla fine ci troveremo dalla parte sbagliata della Storia. Detta così sembra enfatico, eccessivo. Ma chi vince una guerra riesce a imporre anche il proprio modello culturale e il proprio sistema di valori: e quanti sono già pronti in Europa a raccogliere successi elettorali sull’onda lunga del fallimento – morale e materiale – delle élite liberali? E l’Unione Europea – morta a Sarajevo, seppellita a Kiev – sopravviverà a questa palese vergogna, a questo nulla nulloso di cui è costituita la sua essenza? A questo trascinarsi di fallimento in fallimento? Davvero crediamo che saranno solo gli ucraini a pagare il conto?
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
Bertold Brecht
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foto di Felipe Dana | Ringraziamenti: AP
East Journal Quotidiano di politica internazionale