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Mentre l’intero Mediterraneo è in ferie, una nuova guerra si sta lentamente preparando proprio al suo centro. È un conflitto che divide l’Europa e, se dovesse degenerare in violenza, avrà ramificazioni da Berlino a Bangui.
Naturalmente, è tutta una questione di gas. Questa volta non si tratta dei giacimenti al largo di Cipro, che solo cinque anni fa hanno visto affrontarsi navi militari francesi e turche, ma dei giacimenti offshore della Libia, descritti da un addetto ai lavori come un “elefante”. In una regione di cleptocrazie ed economie in difficoltà, il recente accordo da 35 miliardi di dollari tra Egitto e Israele dimostra perché questi giacimenti siano così interessanti da sviluppare.
Gli ultimi sei mesi di sviluppi nel Mediterraneo centrale sembrano indicare si stia costruendo un consorzio per lo sviluppo di questi giacimenti e, soprattutto, chi ne trarrà profitto. In primis il rafforzamento del coinvolgimento della Turchia con gli attori della Libia orientale e l’iniziativa di Aguileh Saleh (il “parlamento” libico) di ratificare un accordo che delinea i confini marittimi firmato tra Ankara e Tripoli nel 2019. Quindi Dbeiba (il “governo” libico) che ha scatenato una guerra per cercare di consolidare il potere nella capitale libica e corteggiato i nuovi “USA in affitto” di Trump, con la recente visita del consigliere americano Massad Boulos e un lucroso protocollo d’intesa con Exxon Mobil per aiutare nella prospezione di giacimenti offshore. Infine, la ripresa del traffico di migranti dalla Libia orientale a Creta – un atto concepito per inimicare la Grecia.
Poi, il 1° agosto, i pezzi hanno iniziato a incastrarsi: Dbeiba, la premier italiana Meloni e il presidente turco Erdogan si sono incontrati a Istanbul per un vertice trilaterale che ha visto un’intensa discussione sul coinvolgimento italiano (tramite ENI) negli accordi turchi con Tripoli per la prospezione di alcuni giacimenti offshore. L’accordo è stato ulteriormente discusso dal ministro degli esteri turco Hakan Fidan in visita in Egitto. Sembra che si stia formando un punto focale turco attorno a un consorzio che coinvolge le dittature libiche, l’Italia e l’Egitto, estendendosi anche agli Emirati Arabi Uniti, e coinvolgendo aziende statunitensi per una certa sicurezza geopolitica.
La risposta? La Grecia ha dichiarato che la sua marina, inizialmente schierata per contrastare il traffico di migranti, rimarrà a tempo indeterminato nelle acque libiche per proteggere quella che considera come sua zona economica esclusiva.
Sembra esserci un’inversione di tendenza rispetto al 2020, quando la Turchia era isolata, con le spalle al muro e schierava la sua marina per proteggere i suoi presunti diritti economici nel Mediterraneo orientale da un consorzio che coinvolgeva Grecia, Cipro, Emirati Arabi Uniti, Egitto e si estendeva a Francia e Stati Uniti.
Allora la guerra fu evitata dalla fortuna e dalla riluttanza a continuare a intensificarsi sullo sfondo di un mercato del gas depresso e di progetti in stallo a tempo indeterminato. Questa volta, la traiettoria delle dinamiche è ben diversa.
Foto: Europarabct.com