Turchia e Sudan

TURCHIA: Quale ruolo di Ankara in Sudan?

“Come Turchia condanniamo con forza gli attacchi contro la popolazione civile a Al-Fashir. Gli attacchi devono cessare e i massacri di civili innocenti devono fermarsi immediatamente”.

Con queste parole, pronunciate in occasione dell’appuntamento annuale del TRT World Forum organizzato dall’emittente statale turca e tenutosi a Istanbul lo scorso 31 ottobre, il presidente turco Erdoğan ha condannato i massacri in corso a Al-Fashir, capitale del Darfur settentrionale. La città, dopo un lungo assedio, è caduta nelle mani dei paramilitari delle RSF. Le immagini satellitari hanno documentato con chiarezza l’entità delle violenze: i massacri casa per casa sono stati di una tale portata che dalle stesse foto scattate dai satelliti è possibile vedere il sangue delle vittime.

Fin dalla sua ascesa al potere, il presidente turco ha cercato di accrescere l’influenza di Ankara nel continente africano. Con un interesse rivolto soprattutto al Nord Africa e al Corno d’Africa, il Sudan ha inevitabilmente assunto un ruolo cruciale grazie alla sua posizione intermedia tra le due aree. Per inquadrare al meglio il conflitto attualmente in corso è quindi essenziale esaminare non solo la dinamica sul terreno — dominata dalle RSF e dall’esercito regolare — ma anche il ruolo degli attori esterni, tra cui la Turchia, che pur mantenendo finora un profilo marginale potrebbe in futuro ritagliarsi uno spazio più significativo.

I demoni a cavallo

Per comprendere l’attuale momento politico sudanese occorre riavvolgere brevemente il nastro. In seguito ad un’ondata di proteste popolari, l’11 aprile 2019 l’esercito ha destituito l’allora presidente in carica Omar al-Bashir, padrone incontrastato del Paese da trent’anni. Al colpo di Stato ha fatto seguito l’istituzione di un governo transitorio, che aveva l’obiettivo di accompagnare il Paese in un percorso di democratizzazione. Il processo ha dato i suoi primi frutti nel 2020, con la messa al bando della mutilazione genitale femminile e l’abolizione della pena di morte per omosessualità e apostasia, ma si è interrotto nell’ottobre 2021, quando il generale Abdel Fattah al-Burhan ha guidato un nuovo colpo di Stato, giustificato con l’instabilità politica del Paese.

Da allora alla guida del Sudan vi sono stati due uomini: l’autore del golpe, divenuto de facto capo di Stato, e Mohamed Hamdan Dagalo, suo vice. Quest’ultimo, noto anche con il nome di Hemedti, dal 2013 è alla guida delle RSF – Rapid Support Forces, un’organizzazione paramilitare composta da milizie di diversa origine. All’interno delle RSF vi sono principalmente coloro che all’inizio degli anni 2000 sono passati agli onori della cronaca con l’appellativo di Janjāwīd: i demoni a cavallo. Dall’arabo jinn (demone) e jawād (cavallo), la fama dei Janjāwīd è divenuta mondiale con il conflitto in Darfur cominciato nel 2003.  Assoldati dallo stesso presidente Omar al-Bashir per reprimere la ribellione della popolazione non-araba della regione, secondo diverse organizzazioni umanitarie i miliziani nel corso della guerra si sono macchiati dei più atroci crimini contro l’umanità. Secondo Amnesty International i Janjāwīd hanno agito impunemente per anni utilizzando anche gli stupri etnici come arma di guerra. Solo qualche settimana fa la Corte penale internazionale ha riconosciuto Ali Kushayb, uno dei leader storici dei miliziani, colpevole di 27 dei 31 capi d’imputazione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Nel 2023, le richieste del generale al-Burhan, che chiedeva l’integrazione delle RSF nell’esercito regolare entro due anni, hanno finito per scontrarsi con le posizioni di Dagalo, dando il via ad un conflitto civile ancora in corso. La presa di al-Fashir da parte dei miliziani rischia di rappresentare un enorme punto di svolta nel conflitto, con la possibile nascita di uno Stato grande più o meno come la Francia all’interno del Sudan guidato dalle RSF.

Il presidente turco Erdoğan, oltre a condannare i massacri, ha sottolineato l’importanza del mantenimento dell’integrità territoriale sudanese, schierandosi così in maniera chiara dalla parte delle forze governative. Un passaggio significativo, considerando che negli ultimi anni Ankara era rimasta in disparte all’interno del conflitto e il suo ultimo grande intervento risaliva ai tempi di al-Bashir.

La Turchia e gli altri

Nell’ambito della politica estera turca, il Nord Africa e l’Africa subsahariana hanno sempre occupato un ruolo di primo piano. Il Sudan, terzo Paese più vasto del continente e situato in una posizione strategica a cavallo tra le due aree, rappresenta da tempo una zona di interesse per Ankara. Nella storica visita del presidente turco nel dicembre 2017 a Khartum, i due Paesi stipularono 21 accordi bilaterali, tra cui un progetto di restauro dell’isola ottomana di Suakin e la costruzione di un molo navale civile/militare sul Mar Rosso. Secondo alcune fonti, per la restaurazione dell’isola è stato stipulato con la Turchia un contratto di leasing dalla durata di 99 anni. Ma le carte in tavola sono cambiate nel 2019, con la caduta del regime di al-Bashir.

Poche settimane dopo la fine della dittatura trentennale di al-Bashir, il generale al-Burhan aveva affermato che l’isola di Suakin costituiva una parte indivisibile del Paese e che il Sudan non avrebbe mai accettato una presenza militare straniera sull’isola. Il cambio repentino di posizione successivo alla deposizione di al-Bashir ha dunque rappresentato uno stop nel processo di inserimento geopolitico turco all’interno del Sudan. Nel corso degli ultimi due anni, Ankara ha seguito il conflitto civile dalle retrovie, lasciando il ruolo di protagonisti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

La situazione sudanese ricorda la postura assunta da Ankara nello Yemen. Anche in quel caso la Turchia ha optato per un ruolo più defilato, lasciando il coinvolgimento diretto a Riyadh ed Abu Dhabi, alleate nello Yemen contro i ribelli Houthi in chiave anti-iraniana ma su fronti opposti in Sudan, con l’Arabia Saudita dalla parte dell’esercito e gli Emirati dalla parte delle RSF. Una divergenza che ci ricorda come le alleanze geopolitiche non determinano sempre compattezza e univocità negli schieramenti.

Considerando l’importante ruolo assunto ai tavoli negoziali per Gaza e il fatto che, dopo tredici anni di perseveranza, Erdoğan è riuscito a portare la Siria nell’orbita dei suoi alleati, sembra possibile un maggior coinvolgimento diretto di Ankara nelle vicende sudanesi. D’altronde, l’espansione degli interessi nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa resta una costante nella proiezione internazionale della Turchia.

Le future scelte geopolitiche di Ankara e degli altri attori regionali restano tuttavia nebulose. L’unica certezza, ad oggi, sono i numeri: 150 mila, 12 milioni e 25 milioni. Non sono cifre casuali, ma rappresentano, nell’ordine, i morti, gli sfollati e le persone a rischio fame causate da un conflitto che, ad oggi, rappresenta la più grave tragedia umanitaria del pianeta.

foto: Africa Defense Forum

Ciao!

Iscriviti alla newsletter di East Journal per non perdere nessuno dei nostri articoli.

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Chi è Marco Pedone

Classe 1999, una Laurea Magistrale in "Lingue e Civiltà Orientali" e un Master di II livello in "Geopolitica e Sicurezza Globale" presso l'Università La Sapienza di Roma. Appassionato di Vicino Oriente, area MENA e sport.

Leggi anche

Stretta di mano blasfema

TURCHIA: Una stretta di mano blasfema

Una vignetta della rivista satirica turca "LeMan" ha scatenato una bufera politica e religiosa all'interno del Paese. Tra l'arresto dei vignettisti e lo stato di fermo di altri sindaci del partito di opposizione, il clima di repressione si intensifica sempre di più.

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com