Pieno centro di Tirana, a due passi da piazza Skanderbeg e dai principali musei. Il tipico simbolo del tempio su un palo lungo la strada indica la direzione da seguire. Voltato l’angolo ci si trova per un momento spiazzati, di fronte al portone di un condominio come tanti. Sul campanello il logo dell’istituzione e dopo un paio di rampe di scale, si arriva a destinazione. La porta dell’appartamento si apre, e con essa un mondo. Ci s’imbatte in Praksithe Plumbi, una figura fondamentale nella prima metà del 900 per il suo impegno per la scolarizzazione delle ragazze e contro le tradizioni patriarcali in Albania. Si scopre Teuta, la regina “pirata”, e che le donne dell’antica Illiria godevano di maggiore libertà nella vita sociale e nel contesto familiare rispetto a quelle greche e romane. Si ammira una splendida Xhubleta, un abito tradizionale delle regioni del nord del paese che per tecniche di realizzazione e uso è stato inserito nel 2022 nella lista Unesco del patrimonio culturale immateriale che necessita di urgente tutela. Oppure si realizza quanto anche semplici oggetti sotto il regime comunista di Enver Hoxha potessero portar macchia – dalla macchina per la pasta, confiscata in quanto di provenienza italiana e quindi corruttrice, al libri i shtëpisë (libro di casa) usato dalle autoritá per esercitare un controllo capillare sulla popolazione, monitorando gli spostamenti e la composizione dei nuclei familiari.
Questo luogo è una finestra sulla storia dell’Albania, dall’antica Illiria al periodo post-comunista, raccontata attraverso oggetti di uso comune, privati, così come da reperti archeologici e documenti, da una prospettiva di genere: quella delle donne. Siamo nel Museo delle Donne in Albania, un piccolo gioiello distribuito su tre stanze, ma la cui portata civile e simbolica va ben oltre le sue dimensioni. La sua fondatrice Elsa Ballauri ci fa guardare dietro le quinte di questo progetto indipendente nato nel 2015 e intenzionato a crescere.
Come giornalista e attivista per i diritti umani cosa ti ha spinto a dar vita ad un museo piuttosto che ad un´associazione?
Tutto è interconnesso. Sin da piccola colleziono oggetti, ho seguito le orme di mio padre – un famoso filatelista. Da questo punto di vista è stato semplice aprire un museo. Ma è soprattutto il mio lavoro ad avermi portato qui, è parte di un percorso. Il museo è in realtà all’interno di una fondazione che esiste dal 2010, l’approccio è più ampio. Tra le altre cose esistono anche una casa editrice e un’accademia per le giovani generazioni. L’aspetto educativo è fondamentale, la capacità di creare spazi per il confronto e formare moltiplicatori. Tutto parte infatti da una constatazione di fondo: in Albania non conosciamo la nostra storia, quella delle donne in particolare. Questa amnesia collettiva è da imputare principalmente al periodo della dittatura di Hoxha, l’accesso agli archivi non era consentita, è stato rimosso quanto avvenuto prima dell’avvento del comunismo. A partire dalla fine degli anni 90 la situazione è cambiata, questi luoghi sono accessibili. Ma le persone sono poco interessate a scoprire il proprio passato.
Da cosa dipende secondo te questo disinteresse?
Molti emigrano, sono presi dalle loro vite quotidiane e conoscere la propria storia non è una priorità. Il periodo della dittatura in particolare, non si affronta come si dovrebbe, il trauma è ancora presente e non viene accettato. Inoltre, tutti i governi che abbiamo avuto sino ad oggi dopo la fine del regime, compreso quello attuale, non sono democratici in senso pieno. Sappiamo cosa vuol dire democrazia, ma non se ne parla in modo approfondito se non attraverso slogan, si imitano gli altri. La società civile è debole. Ci sono sì progetti e persone singole impegnate, ma non esistono movimenti in Albania. Per averli c’è bisogno di conoscere il contesto, avere una visione e soprattutto avere cognizione del proprio passato.
Che cosa rende l’approccio del museo speciale?
Il museo è un mezzo per parlare dei diritti delle donne in un modo diverso, che non siano i soliti progetti, conferenze o tavole rotonde. La collezione è molto più grande di quanto esposto. Gli oggetti sono stati e vengono selezionati a partire dal tema, è questo il focus principale: far conoscere la storia in generale. Ad esempio la galleria di foto all’ingresso dietro al filo spinato, rende omaggio alle donne vittime del regime e cresce man mano che si fanno nuove scoperte. Oppure la balconata usata nelle abitazioni in epoca ottomana per celare le donne ai visitatori, è un oggetto che ho cercato a lungo. Conoscere la storia rafforza l’identità delle donne. Sono un’attivista della prima ora e dal 1996 sono a capo dell’Albanian Human Rights Group. Sono sempre alla ricerca di metodologie e approcci nuovi che permettano di allargare il campo d’azione, e sia il museo che la Human Rights and Minority Rights Academy vanno visti sotto questa ottica. Non si tratta solo di imparare teoricamente, ma anche di mettere in pratica nella vita di tutti i giorni. Purtroppo il problema è che nonostante la motivazione a voler cambiare le cose, gran parte dei giovani vogliono lasciare il paese per i motivi prima elencati e soprattutto perché è la corruzione a governare l’Albania.
Cosa andrebbe fatto per migliorare la situazione?
Il paese non ha bisogno di tutto quello che si sta costruendo. Quello che serve veramente è una buona strategia per rafforzare la società civile – per renderla consapevole, critica e indipendente, per l’economia, per la cultura e così di seguito. E che le leggi in vigore vengano attuate.
E com’è cambiata la posizione delle donne nell’Albania di oggi?
Sicuramente c’è stato un cambiamento sotto molti punti di vista. Ma come per molti altri ambiti, spesso si tratta di cose di facciata, da dire e mostrare all’estero. Al tempo stesso però, le donne hanno acquisito più consapevolezza negli ultimi trent’anni, e anche se a volte non sono in grado di realizzare le loro idee, sanno che ruolo dovrebbero avere nella società. In politica sono molto più visibili, ma seguono un’agenda dettata dagli uomini. Nel mondo degli affari e in altri settori invece, sono più indipendenti e si distinguono maggiormente in modo positivo.
Tornando alla storia del museo in relazione alla tua biografia, alla tua esperienza diretta con il regime …
Entrambi i miei genitori vengono dal sud del paese, da Korça (la cosiddetta “Parigi albanese”, ndr). Erano ricchi intellettuali e hanno sofferto sotto il comunismo. Gran parte degli oggetti esposti nel museo – mobili, abiti, gioielli, libri, appartenevano alla mia famiglia. Quando mio nonno è stato mandato in prigione, mio padre, mia zia e mia nonna sono stati costretti a lasciare la casa e tutti gli averi confiscati. La notte prima della partenza, mio padre, molto giovane all’epoca, ha aperto i sigilli apposti su alcune valige ed è riuscito a scambiare gli oggetti di valore al loro interno con altri. Dopo di che le ha portate dai vicini affinché le nascondessero. E da qui è iniziato il calvario – su cui sto scrivendo un libro. Conoscere tutto questo mi ha ovviamente segnata negativamente, ma al contempo mi ha aperto la mente e spinto a voler indagare oltre questa parte di storia. Che cosa sappiamo esattamente del periodo comunista oltre agli orrori? Che cosa è successo prima della guerra? Che cosa vuol dire dittatura?
Quali cooperazioni ha instaurato il museo nel corso degli anni?
Come dicevo, lavoriamo molto con i giovani, da università e scuole superiori. Spesso sono loro a proporre gli argomenti di discussione per i training che organizza l’accademia. Oltre a storici ed etnografi, anche ragazze e ragazzi fanno ricerca negli archivi e nelle biblioteche – si tratta di un’iniziativa lanciata quattro anni fa. Gli chiediamo di trovare informazioni specifiche sulle donne. Tra le tante cose, è tornato alla luce il fatto che negli anni 20 e 30 del secolo scorso in Albania c’erano oltre venti movimenti: le donne si formavano anche all’estero, erano insegnanti, moltiplicatrici e attiviste nel senso che potremmo intendere oggi. L’associazionismo delle donne era persino supportato dalle sorelle del re Zog. Il museo è parte dell’International Association of Women’s Museums (IAWM) – con sede a Merano, io stessa faccio parte del consiglio, e con alcuni di questi musei (ne esistono oltre 100 in tutto il mondo, ndr) abbiamo delle buone cooperazioni. Ad esempio l’evento dell’anno scorso “Women transform the Balkans” è stato organizzato assieme al WomaN’S Museum di Novi Sad e Muzej žena Crne Gore di Podgorica, entrambi virtuali, con lo scopo di dar vita ad un network all’interno della penisola. Tutti i progetti e le iniziative vivono grazie alla rete sempre crescente di partner anche a livello europeo, basti pensare al fatto che il museo non percepisce finanziamenti dal governo, per scelta.
Che cosa ha in serbo il futuro?
Tra le tante cose stiamo lavorando ad una serie di pubblicazioni e alla creazione di video e documentari da proiettare all’interno del museo. Di sicuro proseguire con gli eventi che organizziamo ogni due settimane su temi diversi – nell’ultimo abbiamo parlato di poesia. Cerchiamo anche di coinvolgere altre città, uscendo dal museo. Per creare interesse dobbiamo trovare nuovi modi per raggiungere le persone, per fargli capire che anche le singole azioni possono avere un impatto. C’è il piano infatti di creare un podcast con esperti di diversi ambiti e testimoni diretti dell’epoca del regime – molte informazioni e interviste sono già disponibili grazie al materiale raccolto quando anni fa conducevo il programma televisivo Femina. C’è molto lavoro da fare per raccontare la verità.
Foto: ©Elsa Bellauri, dalla collezione del museo, anno 1942
East Journal Quotidiano di politica internazionale