Da PARIGI – È il cielo giusto quello sopra Parigi, domenica 6 luglio 2025. L’unico possibile, plumbeo e autunnale, incurante dell’essere nel pieno d’un giorno d’estate, come se avesse indossato l’abito scuro delle occasioni importanti, quello delle funzioni dove anche la forma conta e c’è un codice che è doveroso rispettare.
È un cielo che sa, questo. E che, per questa giornata almeno, ha riposto la luce abbacinante delle settimane scorse e s’è messo in ghingheri. Che sa cosa sta accadendo, qui, e perché un gruppo di persone ha deciso di radunarsi una domenica pomeriggio a Place du Colonel-Fabien, a cavallo tra decimo e diciannovesimo arrondissement, estremo nordest della città; piazza che deve il suo nome a Pierre Georges, detto Fabien, comunista e resistente all’invasione nazista, morto ammazzato nel 1944, come se anche la toponomastica c’entrasse e si allineasse alla cerimonia e ai suoi riti.
È un cielo che sa, questo. Che sa perché queste persone hanno deciso di percorrere gli oltre tre chilometri che, lungo Boulevard de la Villette, le porta a sudest al cimitero Père Lachaise, il più importante della città. Il più grande con i suoi quaranta ettari, un parco immenso che invita alla contemplazione e al sogno, intriso d’arte, cultura e storia, un labirinto di pietre e alberi e lapidi. Qui riposano Chopin, Molière, Proust e Oscar Wilde. Qui, a sera, è possibile sentir duettare Jim Morrison ed Edith Piaf.
L’iniziativa è dell’associazione Solidarité Internationale Bosnie-Herzégovine, che dal 2017 cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica francese sui problemi che affliggono la Bosnia Erzegovina. È il suo responsabile, Jacques Olivier David, che oggi ha chiamato la gente a partecipare a questa marcia nella ricorrenza del trentennale del genocidio di Srebrenica. Ha appuntata sulla camicia chiara la spilla col fiore bianco e verde di Srebrenica, va su e giù instancabile, raduna, saluta, stringe mani con fare riconoscente. “E’ dagli anni della guerra che mi occupo di Bosnia” mi dice, “allora aiutavamo gli studenti sarajevesi con un’associazione che ha persino ricevuto il premio Olaf Palme” aggiunge con legittimo orgoglio.
Lo stesso orgoglio che vedo ora nei suoi occhi azzurrissimi, quello per aver saputo mettere insieme quasi duecento persone malgrado la pioggia battente, che insiste e fa la sua parte nella rappresentazione in scena. Molti sono i ragazzi, alcuni avvolti nella bandiera bosniaca, sono la seconda generazione di coloro che negli anni novanta si rifugiarono qua. Parlano francese tra di loro, una comunità che solo a Parigi raccoglie almeno duemila persone sebbene non esista una conta ufficialmente riconosciuta.
Tante anche le bandiere francesi, infatti, che si sovrappongono a quella col giglio dorato su sfondo blu dei primi anni dell’indipendenza bosniaca e a quella mai troppo amata che è venuta dopo e che avrebbe dovuto accontentar tutti con le sue stelle senz’anima. Spunta anche una maglietta a ricordare che a Srebrenica fu genocidio, è la parola che ricorre di più nei discorsi ufficiali all’arrivo al cimitero. C’è un rappresentante dell’ambasciata bosniaca, e una consigliera del comune di Parigi; comune che, insieme ad altre quattordici associazioni e a molti privati, ha contribuito a mettere insieme i fondi necessari per la realizzazione di una stele in granito grigio di fronte alla quale si chiude la marcia.
La stele è significativamente a fianco di un monumento dedicato a un altro genocidio, quello dei tutsi in Rwanda nel 1994, tragico destino che unisce due luoghi distanti migliaia di chilometri: è ancora coperta da un telo scuro, la forma appena si intuisce, la sua inaugurazione sarà solo il 25 luglio, problemi organizzativi.
In pochi se ne curano, oggi, la cosa che conta davvero, infatti, è essere qui tutti insieme, rivedersi, riconoscersi, sapersi l’un l’altro. Sono tanti gli occhi lucidi alla lettura dei sette nomi delle persone che verranno inumate a Potocari quest’anno, due di loro poco più che maggiorenni. Sono sempre di meno ogni anno, una curva inevitabilmente asintotica allo zero, ancora pochi anni e non ci sarà più nessuno da seppellire, nessun frammento da mettere in quelle bare verdi. Gli uomini prima, il tempo e il peso della terra, dopo, hanno disperso, distrutto, polverizzato. Rimescolato, reso indistinguibile, trasformato in altro. Sono settemila le persone che hanno trovato un nome su una lapide, al momento: alla conta ne mancano millequattrocento.
Trent’anni sono cifra tonda, va detto, rendono la ricorrenza un evento da menzionare anche da chi, normalmente, non lo fa, nei giornali mainstream, nei dibattiti, in televisione. È cifra che aiuta a ricordare e a costruire, non è poco, è moltissimo anzi: oltre che a Parigi, altri monumenti commemorativi sono stati realizzati a Vienna e in Lussemburgo. Persino in quell’Olanda che porta il peso della vergogna per il comportamento dei suoi caschi blu nei giorni del massacro, all’Aja, nella piazza antistante di quel che fu il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia.
Ma quei millequattrocento morti che mancano sono un’amputazione insopportabile, descrivono una convergenza impossibile, un vuoto incolmabile. Vuoto che fa di questo trentennale una cifra tonda ma, anche e soprattutto, una cifra che non torna.
Foto: Pietro Aleotti