Un breve racconto per celebrare i trent’anni da Srebrenica.
La testa un po’ inclinata di lato, appoggiata sullo schienale di questa poltrona di stoffa blu; le ginocchia rannicchiate al petto, sento il cuore che ci sbatte contro.
La stanza è buia, appena illuminata dalla luce arancione dei lampioni in strada che si alzano altissimi, improvvisi, forse spuntati con la pioggia di questi giorni.
Penso alla luna che da qui si vedeva ieri notte: la ricordo appena, disegnata sul tetto di fronte, sbocconcellata come se qualcuno le avesse tirato un enorme morso. Stasera non c’è. Forse il tempo, dall’altra parte dell’orizzonte, ha finito di inghiottirla. Magari non trova più alcuna ragione per tornare.
Ascolto il rumore dell’acqua che cade oltre la finestra: è bellissimo. Nella miniera di suoni che si annida nella mia testa sono certa che ora, in questo preciso momento, quello della pioggia sia l’unico suono possibile. L’unico.
Chi ha in mano la regia dell’universo sta facendo, adesso, in quest’angolo di mondo, un lavoro perfetto. Una catarsi.
Questa impressione mi rasserena un po’ dopo una giornata in cui ho visto svanire, una dopo l’altra, tutte le mie certezze d’argilla, impantanate nelle sabbie mobili che ho in seno. Ho sentito il peso di ogni mio atteggiamento, persino di questo mutismo idiota in cui ho voluto cacciarmi e da cui non so più uscire. Tutto, indistintamente, mi è parso fuori luogo, senza senso, come presa dalla consapevolezza che in fondo non ho saputo proteggerti, non ho saputo salvarti, non ho saputo amarti abbastanza, forse.
Ti hanno portato via che era notte, perché è così che fanno sempre.
E fin da subito è stato un dolore che si contava col metro dei passi, quelli senza direzione e senza verso che sommano una distanza. È stato allora, sola allora, che ho capito che l’amore di una madre per un figlio si misura col peso del vuoto. È un’assenza che ne definisce i contorni, la forma. E’ l’assenza che sa della profondità, dell’abisso.
Ti hanno portato via che era di notte perché è così che fanno sempre: e il letto è rimasto come l’hai lasciato, come se ti fossi alzato per un istante soltanto. Lo facevi sempre da bambino, per controllare che io dormissi nella stanza a fianco. Allora aprivo gli occhi e vedevo l’ombra silenziosa del tuo viso ritagliata nella lucina azzurra che lasciavamo accesa perché il buio non ci piaceva.
Ma stamane mi sono alzata con una consapevolezza strana, una specie di formicolio tra petto e stomaco, un calore violento ai lobi delle orecchie. Non so cosa fosse né da dove arrivasse. Era come una sensazione di pienezza, una stanchezza definitiva. Come se la misura di quel dolore fosse infine colma, riempito il pozzo che non si può riempiere.
È stato così che, d’improvviso, quasi inconsciamente, ho saputo riassumere ogni mia energia nella mano che ha abbassato la maniglia. È arrivato il momento di far accadere quell’istante sospeso, schiodarlo una buona volta, vedere cosa c’è oltre l’immagine di te trascinato con le mani dietro la schiena e lo sguardo attonito di chi non capisce. Dare la possibilità al tempo di riprendere la sua corsa, a me di espiare la mia colpa.
È arrivato il tempo di raccogliere il pupazzo di pezza dal tuo letto e di scuotergli di dosso la polvere con un colpo secco.
(Foto: Ritagli di viaggio)