Beriz Mujić avrebbe oggi 46 anni, un uomo nel pieno della propria maturità. Ne aveva invece appena diciassette quando fu ammazzato e gettato in una fossa comune dalle milizie paramilitari serbo-bosniache di Ratko Mladić. L’anno era il millenovecentonovantacinque, luglio, il luogo Srebrenica, Bosnia orientale. La Serbia è a una manciata di chilometri, a est, appena oltre il corso della Drina.
Le celebrazioni
Beriz è la più giovane delle vittime del genocidio di Srebrenica tra quelle che quest’anno troveranno sepoltura nel cimitero di Potočari, quattordici in tutto. Quattordici nuove bare verdi che porteranno la conta dei corpi a 6765, una cifra spaventosa ma ancora lontana dalla stima unanimemente accreditata di oltre ottomila trecento.
Saranno migliaia le persone che parteciperanno al funerale collettivo e alle commemorazioni che si officeranno tra il 12 e il 18 luglio presso il memoriale e che, quest’anno, avranno come titolo “io sono perché tu sei“. Commemorazioni che sono state precedute, anche quest’anno, dalla Marš Mira, la Marcia della Pace che ha ripercorso i cento chilometri che separano Srebrenica da Nezuk, la strada forestale percorsa dagli uomini in fuga, nel disperato tentativo di raggiungere Tuzla e la salvezza. Un evento che si ripete ogni volta uguale a sé stesso com’è doveroso e come è giusto che sia, perlomeno fintanto che l’opera di riconoscimento non sarà completata.
Sono ancora tantissime le vittime senza nome, ridotte a pochi resti raccolti in sacchi bianchi poggiati sugli scaffali d’acciaio di un obitorio in cui ogni anno operano esperti, medici, antropologi forensi della Commissione internazionale per le persone scomparse (ICMP). Tra loro Dragana Vučetić, serba, anch’essa impegnata in quest’opera di riconoscimento, in un lavoro che “voglio davvero portare a termine”. Ogni fine settimana Dragana lascia Tuzla, dove lavora, attraversa il confine e torna a casa in Serbia, ma di sé dice “sono un’antropologa, non un’antropologa serba” . Una pendolare della speranza, un bel segnale, uno dei pochi.
Il contesto
Uno dei pochi segnali positivi quanto meno a giudicare dalla reazione isterica con cui il presidente serbo, Aleksandar Vučić, ha accolto – nel maggio scorso – la risoluzione ONU che istituisce per l’11 luglio la giornata internazionale di riflessione e commemorazione sul genocidio di Srebrenica. Vučić avvolto nella bandiera del proprio paese subito dopo il voto è al contempo una pagliacciata e un gesto politicamente lucidissimo. Utilissimo per rinvigorire la propria narrazione vittimistica e ultranazionalista, per tornare a paventare rischi per la stabilità della Bosnia Erzegovina e, in definitiva, per rafforzare le mire secessioniste di Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska – l’entità a maggioranza serba del paese – sua fedele scudiero con delega informale alla politica estera e alle relazioni (più o meno confessabili) con la Russia del presidente Vladimir Putin.
Una pagliacciata che non solo dimostra quanta strada ci sia ancora da fare per arrivare a un minimo riconoscimento delle responsabilità di quei fatti – così come accertati dalla storia prim’ancora che dalle sentenze dei tribunali – ma che sono anche la cartina di tornasole dell’assoluta assenza di una vera volontà politica a imboccare un qualsivoglia percorso virtuoso. La prova plastica di ciò è nello stridore tra le bandiere a mezz’asta previste per l’11 luglio in tutti i luoghi pubblici della Federazione – l’altra entità a maggioranza bosgnacca e croata – e la decisione di riunire l’assemblea della Republika Srpska proprio a Srebrenica nel medesimo giorno del voto all’ONU.
Un modo per marcare il territorio, approfondire il solco; un solco che passa anche attraverso la ridenominazione di strade e piazze voluta dal sindaco serbo-bosniaco di Srebrenica, Mladen Grujičić, a rispolverare vecchie glorie cetniche. E ancor più significativamente attraverso la diffusa apologia dei criminali di guerra, Mladić e l’ex presidente Radovan Karadžić su tutti, anch’essa figlia di quella cultura del negazionismo di cui è intrisa gran parte della società serba. Fatti che fanno derubricare la sorprendente partecipazione di Dodik alla riapertura della moschea Arnaudija a Banja Luka a semplice episodio isolato, perlomeno fintanto che a un gesto così dirompentemente simbolico non farà seguito un vero e proprio cambiamento di rotta. Cambiamento allo stato inimmaginabile.
Le ossa come semi
Le ossa di Beriz e di chi ha condiviso la stessa sorte sono state ritrovate sparpagliate in centinaia di posti diversi tra le colline e le montagne di Srebrenica, Bratunac, Vlasenica, Zvornik, Milić. Il chiaro intento era quello di rendere impossibile la ricostruzione della magnitudine di quel massacro, i numeri di quella carneficina. Ma il lavoro di Dragana – e degli altri come lei – ha trasformato quelle ossa in semi; come se una gigantesca mano li avesse, infine, sparsi per i boschi di Bosnia trasformandoli così in piante, fiori, alberi. In germogli di una pace difficile ma non impossibile, nemesi per i propri aguzzini, irreparabile sconfitta.
La morte di Beriz, quella delle altre ottomila persone, quella – più in generale – legata all’assoluta insensatezza delle “ragioni” che l’hanno provocata, non possono non far pensare a quanto il mondo sia più povero senza di lui. Quanta energia, quanta capacità, quanto talento sono stati persi. Quanta bellezza non è stata vissuta. Non sapremo mai cosa Beriz sarebbe diventato, un fisico nucleare, un artigiano, un cantore di sevdalinka, qualsiasi altra cosa. Ma la sua assenza pesa, pesa enormemente, come se ci fossimo amputati di una parte essenziale, come se alla somma mancasse un pezzo, un pezzo che non tornerà più.
La sua morte è un morso al tutto, il boccone che sfigura l’intero, masticato con disprezzo e sputato per terra. Quella terra dalla quale è stato necessario dissotterrarlo per dargli un nome, di nuovo un volto, le chiavi di casa. E quella terra dove oggi ritorna, in una bara verde, a fianco del fratello Hazim che lo aspetta dal 2013. In attesa che anche il padre riunisca la famiglia.
(Foto: Pagina Facebook di Marš Mira)