BOSNIA: La procura di Milano apre il caso Sarajevo Safari

Sta venendo alla luce l’orrenda vicenda del Sarajevo Safari, in cui ricchi stranieri – tra cui molti italiani – pagarono per “giocare alla guerra” andando in Bosnia durante il conflitto a uccidere civili sotto assedio.

La Procura di Milano ha aperto un caso le cui indagini dovrebbero iniziare a breve sul cosiddetto “Sarajevo Safari“. Il titolo è ispirato al docufilm del regista sloveno Miran Zupanič, prodotto dall’emittente qatariota Al Jazeera Balkans e dalla slovena Arsmedia, e presentato al festival AJB DOC nel settembre 2022. Si racconta un capitolo tragico della guerra in Bosnia, quando durante l’assedio della città molti uomini stranieri alla ricerca di esperienze forti avrebbero pagato per unirsi all’esercito serbo e sparare ai cittadini di Sarajevo dai grattacieli del quartiere Grbavica. Questi “cacciatori di esseri umani” che raggiungevano la capitale della Bosnia erano uomini stranieri, tra cui molti italiani, disposti a pagare per giocare alla guerra, o meglio, per simulare un a specie di macabro safari dove i sarajevesi erano la bestie da abbattere.

L’apertura del caso è il risultato degli sforzi investigativi del giornalista, scrittore, regista e pubblicista italiano Ezio Gavazzeni, che ha rivelato le origini e alcuni dei protagonisti di questa orrenda vicenda. Gavazzeni, che in precedenza si era occupato di terrorismo, mafia e malavita politica, ha  avviato una propria indagine sul caso, i cui dettagli macabri stanno scioccando l’opinione pubblica bosniaca e scatenando reazioni contrastanti a seconda dell’etnia di appartenenza: negazionismo e accuse di demonizzazione del proprio popolo da parte dei serbi; sconcerto, rabbia e volontà di giustizia da parte dei bosgnacchi.

Negli anni scorsi l’allora sindaca di Sarajevo, Benjamina Karić, presentò una denuncia penale contro ignoti alla Procura della Bosnia Erzegovina, volta a individuare gli organizzatori e gli autori di questi crimini contro la popolazione civile. Ciononostante la procuratrice in carica, Marijana Čobović, non raccolse prove e non aprì alcuna indagine, sebbene negli archivi militari risultassero testimoni e prove schiaccianti che potevano dare avvio alle indagini. Da canto suo, la Procura bosniaca fa sapere che il caso è sotto inchiesta, che la decisione non è ancora stata presa, e una volta fatto, “il pubblico ne sarà informato”.

Grazie alle indagini di Gavazzeni, si sta scoprendo che l’attività di raduno di questi “safaristi” senza scrupoli non era affatto segreta, ma le operazioni erano eseguite alla luce del sole, come se si trattasse di un normale pacchetto turistico, spesso etichettato sotto la falsa dicitura di “distribuzione di aiuti umanitari”, col consenso delle organizzazioni ufficiali. In una dichiarazione rilasciata a Radio Sarajevo, Gavazzeni cita Magenta come città di raccolta dei “turisti cecchini” da cui una volta al mese, tra il 1992 e il 1994, partivano in pullman alla volta di Sarajevo, con il pretesto di trasportare cibo e aiuti umanitari. Nella sua straordinaria attività investigativa, Gavazzeni sostiene di aver trovato uno di questi cecchini, che però si rifiuta di collaborare dal momento che “ha lasciato alle spalle quella parte della sua vita”.

Questo macabro fenomeno, quindi, non era sconosciuto all’opinione pubblica. Anzi, a suo tempo persino il Corriere della Sera aveva pubblicato un articolo dal titolo “Vacanze in Bosnia, tiro all’uomo compreso“, in cui veniva raccontato il “turismo di guerra” di uomini italiani che “giocavano” ai cecchini tra ustascia e saluti fascisti. Alla luce di tutto questo, pare evidente che le autorità e i servizi segreti italiani dovessero esserne a conoscenza. Già allora era noto che un gruppo di “cacciatori” viaggiava ogni mese in autobus, equipaggiati con uniformi mimetiche, stivali militari e armi, con destinazione la Bosnia Erzegovina. Una volta giunti sul campo di battaglia, come testimoniato da uno di questi “cecchini a pagamento”, si univano ai soldati croati o serbi, e potevano così sparare ai cittadini nella Sarajevo assediata. In base a quanto scritto nell’articolo del Corriere, una volta terminata la “sessione”, i soldati italiani e quelli locali si sedevano allo stesso tavolo per banchettare e glorificare esponenti e operato dei rispettivi fascismi.

Sulla base delle prove raccolte Gavazzeni, insieme all’avvocato Guido Salvini, ha presentato una denuncia penale alla Procura di Milano, che ha aperto il caso e che presumibilmente aprirà anche le relative indagini. La dimensione legale della vicenda sarà dunque prima al vaglio della giustizia italiana e poi di quella bosniaca. Per ora, l’unica cosa che lega le due magistrature nazionali in questo caso è il fatto che la denuncia penale di Benjamina Karić rientra nel fascicolo di Milano. Inoltre, c’è la testimonianza del soldato americano dell’IFOR (Implementation Force), John Jordan, che vide i cecchini a Grbavica (Sarajevo) deponendo poi al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia nel processo contro il generale Dragomir Milošević. Tuttavia, considerando il carattere internazionale dell’organizzazione di questi “safari”, saranno necessarie assistenza legale e cooperazione internazionale tra Bosnia e Italia, in un processo che presumibilmente sarà lungo e complesso.

Ciò che rende questo caso particolare è che sono in gioco due rami distinti della stessa organizzazione. La prima si trova in Italia, e corrisponde alla ricerca dei “clienti”, alla formazione del gruppo e al trasferimento in Bosnia via Belgrado o Spalato. Qui avviene la seconda fase, in cui vengono presi contatti con gli organizzatori in Bosnia e con i responsabili delle postazioni dei cecchini. Nel caso di Sarajevo pare lampante che l’organizzazione da parte serba si sia svolta ai più alti livelli di comando, nell’ambito dei servizi segreti e di sicurezza militari prima, e dei comandanti locali e degli ufficiali sul campo poi. 

Per quanto riguarda l’Italia, gli archivi chiave sono quelli dei servizi segreti e di sicurezza SISMI e SISDE e della polizia di Milano. Logicamente, dovevano disporre di documenti relativi a queste vicende a loro note, che per loro natura sono probabilmente stati  secretati. In ogni caso, dopo l’apertura dell’indagine, e a trent’anni di distanza dai fatti, tali materiali dovrebbero essere resi disponibili, salvo conflitti d’interesse che potrebbero ostacolare la giustizia – alcuni dei partecipanti a questi safari erano, o sono ancora, membri dell’élite politico-sociale italiana.

Questa storia raccapricciante non è del tutto inedita. Come afferma il giornalista e co-fondatore di Infinito Edizioni Luca Leone, i giornalisti che lavoravano a Sarajevo, ma anche tutta la popolazione della città assediata durante la guerra, sapevano del caso dei cecchini a pagamento. Nel suo romanzo I bastardi di Sarajevo, uscito nel 2014, Leone fu tra i primi a parlare del caso.

Foto: Koha.net

Chi è Paolo Garatti

Appassionato di Storia balcanica contemporanea, ha vissuto a Sarajevo e Belgrado per qualche tempo. Laureato in Filologia moderna presso l'Università degli studi di Verona, viaggia da solo ed esplora l'Est principalmente in treno

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