Serbia Kosovo dialogo

Serbia e Kosovo, niente adesione senza dialogo

Ha concluso le sue prime visite ufficiali a Belgrado e Pristina Kaja Kallas, Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della nuova Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen.

Un dialogo da due anni alle corde

L’attenzione internazionale si è focalizzata sugli incontri a Belgrado con il presidente serbo, Aleksandar Vučić e a Pristina con il primo ministro kosovaro, Albin Kurti. Impossibile, in questo momento, mettere attorno allo stesso tavolo i due leader, che non si incontrano dal settembre del 2023. All’epoca al posto di Kallas c’era Josep Borrell e fu proprio lui, a margine di quella riunione, a riconoscere “l’impossibilità di colmare le differenze”, lasciando intendere che il processo si era irrimediabilmente arenato e che sarebbe passato un bel po’ di tempo prima di rivedere i due di nuovo faccia a faccia. Così è stato e così è ancora, come era stato facile premonire anche da queste colonne.

Molto bastone, poca carota

Queste le premesse del viaggio di Kallas, questo il clima: dialogo in pieno stallo, posizioni congelate e inconciliabili. Premesse che – a ben vedere – hanno indotto l’Alta rappresentante a un atteggiamento tutt’altro che conciliante con gli interlocutori riluttanti. Uscendo infatti dal linguaggio paludato della diplomazia internazionale, il messaggio che Kallas ha mandato a entrambi i contendenti è forte e chiaro: senza riforme strutturali e, soprattutto, senza dialogo non si va da nessuna parte, non c’è Europa, non c’è integrazione.

Nessuna scorciatoia” ha ribadito a Vučić, facendogli anche intendere quanto sia stata indigesta la sua decisione di recarsi a Mosca per le celebrazioni putiniane della vittoria sul nazifascismo. Le riforme sono una conditio sine qua non: e lo sono perché portano “benefici reali ai cittadini” a maggior ragione ora che sono chieste da “migliaia di manifestanti”, con esplicito riferimento ai moti che da mesi attraversano il paese e che, per la prima volta, hanno fatto vacillare il potere incontrastato del presidente serbo. Chiede passi concreti, Kallas, non una “semplice spunta sulla carta” e li chiede sulla lotta alla corruzione, le riforme elettorali, la separazione tra potere legislativo e giudiziario (violentissima la pressione della politica serba sulla magistratura negli ultimi tempi), la libertà di stampa. Questione – quest’ultima – che vede la Serbia condividere, proprio col Kosovo, il poco lusinghiero primato di paesi classificati come “difficili” dal recente rapporto di Reporter Senza Frontiere, unici in Europa.

Ma è il nodo del dialogo con il Kosovo quello dirimente. Ed è proprio questo nodo che lega indissolubilmente Vučić a Kurti, nemici di una vita. Kaja Kallas lo ha ribadito anche al premier kosovaro, incontrato l’indomani a Pristina, in un discorso che sembrava il copia-incolla di quello del giorno precedente: anche qui, nessuna scorciatoia ma dialogo e – soprattutto – un cambio radicale nel nord del paese dove “la chiusura delle strutture sostenute dalla Serbia mina gli sforzi verso la de-escalation“. La parola d’ordine è – e deve essere – “normalizzazione”, unica soluzione, sola opzione per “un futuro sicuro e prospero”. E, poi, riforme, riforme e ancora riforme, quelle che servono al Kosovo per essere quantomeno accreditato come paese candidato. Ma soprattutto – una buona volta – l’uscita dallo stallo politico in cui il paese è andato a cacciarsi dopo le elezioni del febbraio scorso e che vede il Kosovo a tutt’oggi senza un esecutivo e con un parlamento persino incapace di nominare il nuovo presidente dell’assemblea. Una condizione che, secondo Kallas, espone il paese al rischio di perdere l’opportunità di accedere al piano di crescita da sei miliardi di euro destinato ai Balcani occidentali.

Una strada in salita

La strada è tutta in salita e l’esito finale nient’affatto scontato. È tutto da dimostrare, infatti, quanto la leva azionata da Kallas possa davvero dimostrarsi efficace nel catalizzare il cambiamento in concreto. In Serbia quel riaffermare “l’inequivocabile orientamento europeo della Repubblica di Serbia” accreditandosi come “un partner affidabile per tutti coloro che aspirano sinceramente alla cooperazione, al progresso e a un futuro europeo comune”, espresso dal neo-premier Đuro Macut, sembra collidere con la consapevolezza che con l’Alta Rappresentante le “opinioni sono molto divergenti”.

D’altra parte, l’insistenza con cui Kurti – nel suo comunicato post-incontro – ha tenuto a ribadire le “responsabilità serbe per l’attentato di Banjska” e le “continue e gravi violazioni dei diritti degli albanesi a Presevo, Medvedja e Bujanovac da parte dello Stato serbo” sottende un arroccamento inscalfibile sulle usuali rivendicazioni, ben lontano da un’apertura a qualsivoglia nota di credito. A prevalere è la sensazione che sia a Belgrado che a Pristina non vi sia oggi un vero desiderio, né una vera convenienza politica, a sedersi nuovamente assieme.

Un cambio di passo

Di buon auspicio, al contrario, sembra il rinnovato interesse per la questione Balcani dimostrato dall’Alta rappresentante europea. La promessa fatta al Kosovo di cancellare le sanzioni in vigore dal 2023 sembra, da una parte, finalizzata a riequilibrare l’asimmetria con cui la Ue si era posta negli ultimi anni tra Kosovo e Serbia e, d’altra l’indiretto riconoscimento degli sforzi fatti dal Kosovo nel campo delle riforme. Di converso la presa di coscienza che l’estenuante lunghezza del processo di adesione possa creare “frustrazione” tra i cittadini per l’impossibilità di avvertire alcun “beneficio tangibile” nel breve periodo, sembra un messaggio indirizzato alla popolazione serba, la cui disaffezione verso le istituzioni comunitarie è andata via via crescendo negli anni.

In definitiva la percezione che la nuova Commissione voglia, davvero, porre il tema dell’allargamento come un proprio obiettivo strategico ha prevalso, così come provato dal manifestato intento di portare nuovamente i due antagonisti a Bruxelles, ripartendo da ciò che resta degli accordi di Ohrid.

È, questa, un’opportunità anche per la bistrattata Europa che può ritrovare nei Balcani una centralità geopolitica del tutto smarrita altrove, traendo giovamento dal fatto che i principali attori mondiali sono, oggi, in altre faccende affaccendate e considerano la regione un problema periferico. Assumere la leadership di questo dossier, uscendo dalla passività degli ultimi anni, darebbe all’Europa l’opportunità di riacquistare una propria credibilità internazionale come mediatore, configurandola come attore globale più che legittimo. Ciò significherebbe assumere un ruolo guida, dettare modi e tempi, investire con coraggio e visione prospettica, abbandonando la logica della gestione ordinaria della stabilità regionale per entrare in quella di chi, al contrario, quella realtà la vuole modellare per incanalarla nell’alveo di un futuro comune, congruente alla propria storia e ai propri valori. Una situazione straordinaria che richiede uno sforzo altrettanto straordinario. In gioco c’è la sua credibilità, quella di oggi, quella di domani.

(Foto: Kossev.info)

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato a Parigi. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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