Dal 20 al 22 novembre, Pristina ha ospitato la 12ª edizione del festival Mirëdita, dobar dan!, un evento dedicato all’incontro culturale, artistico e al dialogo tra Kosovo e Serbia.
Una rinascita dopo le tensioni
DA PRISTINA. Ci sono festival che mostrano film, altri che presentano libri, altri ancora che celebrano la scena musicale. Mirëdita, dobar dan! appartiene a una categoria più rara: quella degli eventi che, senza proclami altisonanti, misurano lo stato di salute di una società. Anzi, di due: quella kosovara e quella serba. Per tre giorni, dal 20 al 22 novembre, il festival Mirëdita, dobar dan! è tornato a Pristina – dopo il successo dell’edizione 2023 – con un programma che ha voluto ricordare con ostinazione che il dialogo tra Kosovo e Serbia può esistere, ed esiste, anche quando altri confini si irrigidiscono. Il festival, organizzato da Integra (Kosovo), dalla Youth Initiative for Human Rights (Serbia) e da altre organizzazioni civiche, nasce dunque con l’obiettivo di costruire ponti culturali e promuovere il dialogo laddove le istituzioni e la politica spesso falliscono.
L’edizione appena conclusa è diventata quindi un segnale di resilienza: il festival è tornato più vivo che mai, con la volontà di creare uno spazio pubblico dove il dialogo è la base di tutto. E questo, mentre l’intera regione sembra scivolare verso un nuovo ciclo di nazionalismi, è un atto rivoluzionario.
Il programma dell’edizione 2025
Il palinsesto è stato molto vario e ha combinato musica, arte visiva, teatro, cinema e dibattiti. L’apertura è avvenuta al Defy Them Alternative Culture Centre con un concerto del gruppo belgradese Pliš, che ha letteralmente fatto vibrare il cortile interno, mentre un pubblico misto – per età e provenienza – si stringeva vicino al palco. Tra i momenti centrali la tavola rotonda The Future of Relations between Serbia and Kosovo, tenutasi al Grand Hotel di Pristina che ha attirato attivisti, studenti e giornalisti. È stata inaugurata un’esposizione con opere di Nemanja Joković e Mihaela Vučinić, il cui focus verteva su memoria, marginalità, identità sospesa. Si è tenuta anche la presentazione del libro Kosovska hronologija 2.0 / Kosovo Knot in Times of Mass Protests in Serbia, a cura della Youth Initiative for Human Rights (YIHR). Un intensissimo spettacolo teatrale intitolato All Good Barbies ha invece esplorato i temi dell’identità, del ritorno al proprio passato e le ferite personali, passando attraverso il tentativo di riconciliarsi con ciò che siamo stati.
Il gran finale ha visto la proiezione del film 78 Days, diretto da Emilija Gašić, che racconta la storia di due sorelle alle prese con le conseguenze della guerra. Alla fine del film molti sono rimasti seduti in silenzio, come se avessero bisogno di qualche minuto per tornare alla città, come se avessero finalmente intuito le pesanti conseguenze del silenzio politico e istituzionale.
Uno degli episodi più toccanti è stato l’omaggio alle vittime della sparatoria in una scuola di Belgrado avvenuta l’anno precedente. Nessun discorso istituzionale, solo una fila di candele accesa davanti al Teatro Nazionale e un silenzio che fendeva l’aria. Un ragazzo kosovaro e una ragazza serba si sono avvicinati insieme alla fila di luci e poi appoggiato le loro candele una accanto all’altra. “Nessuna vita dovrebbe essere usata come simbolo” ha detto il giovane, a cui ha fatto eco la ragazza dicendo: “nessun dolore dovrebbe diventare una bandiera“.
Alla fine del festival, spente le luci e smontati tutti i palchi, resta una sensazione ambivalente: da una parte l’orgoglio degli organizzatori, dall’altro la consapevolezza che Mirëdita, dobar dan! è uno squarcio di luce che da solo non riesce a illuminare il cielo nero di una realtà ancora complessa.
Un laboratorio per il futuro
La forza di Mirëdita, dobar dan! sta nella sua radicale semplicità: nessuna trattativa, nessuna delegazione, nessun protocollo. Serbi e kosovari che si incontrano per vedere un film, discutere un libro, assistere a uno spettacolo teatrale, condividere spazi per guardarsi senza lenti deformanti. Ed è proprio questa semplicità a spaventare i nazionalisti, perché dimostra che la distanza tra le società è molto più sottile di quanto la politica voglia far credere.
Chi teme questo festival non teme l’arte, teme la normalizzazione. Teme la possibilità che, ascoltando la storia di una ragazza kosovara o di un attore serbo, qualcuno possa rendersi conto che il “nemico” non esiste fuori dai discorsi infiammati e dalle cronache strumentalizzate. Chi teme questo festival teme, in fondo, il crollo dei muri identitari che tanto utili sono alle carriere politiche.
Ed è proprio questa la storia che è emersa con più forza durante la tre giorni di manifestazione: una società civile che non si arrende. Giovani serbi, decine di giovani serbi che sono arrivati in Kosovo nonostante l’ostilità dei propri media. Giovani kosovari che ascoltano, discutono, dialogano, senza la paranoia della propaganda. Artisti che hanno finalmente spazio per parlare di identità, memoria, traumi, senza doversi giustificare.
Come sono belle e pulite le facce di chi cerca il dialogo, di chi si confronta tenacemente per cercare di riconciliarsi. Come sono belle e pulite le facce di quei giovani pieni di speranze, affamati di futuro, risoluti a rifiutare una narrazione ereditata – a volte mai davvero capita – che li vuole rancorosi e nemici. Non è ottimismo ingenuo, è pura constatazione: ogni concerto, ogni dibattito, ogni film proiettato, ogni poesia declamata è un atto di resistenza contro l’idea che serbi e kosovari non possano condividere nulla se non veleni e reciproche accuse.
La politica può bloccare una manifestazione, può strumentalizzare un documentario o impedire uno spettacolo, ma non può impedire la curiosità umana, né la necessità di respirare un’aria diversa da quella dell’ostilità permanente. E alla fine è stato il pubblico a riempire gli spazi che la politica continua a lasciare vuoti.
Il coraggio di parlare
Ecco perché Mirëdita, dobar dan! non è soltanto un festival: è un laboratorio di futuro. Un futuro modesto, quotidiano, fatto di incontri e non di summit. Un futuro che non farà notizia sulle prime pagine, ma che ha un valore enorme nella vita di chi, per tre giorni, ha deciso di mettere da parte la paura trovando il coraggio di parlare.
La domanda da porsi non è se il festival cambierà le relazioni tra Serbia e Kosovo, come detto sopra non ne ha la forza. La domanda che è rimbalzata in ogni evento del festival è un’altra: cosa succederebbe se le istituzioni trovassero lo stesso coraggio che ogni anno mostrano gli organizzatori e i partecipanti di questo festival?
Probabilmente, scopriremmo che la pace non è una formula magica, ma è una pratica quotidiana. Le parole Mirëdita e Dobar dan significano buongiorno, rispettivamente in albanese e in serbo. Durante una delle conferenze è stato spiegato il motivo di questo nome: il saluto è la prima e più immediata forma di riconoscimento. Salutare significa riconoscere l’esistenza dell’altro. E se la pace è davvero una pratica quotidiana, qui più che altrove, essa può cominciare semplicemente dicendo e continuando sempre a dire Mirëdita, Dobar dan.
Foto: Paolo Garatti
East Journal Quotidiano di politica internazionale