Anche quest’anno il 9 gennaio i serbi di Bosnia hanno celebrato la loro festa nazionale, nell’anniversario della proclamazione della Republika Srpska. E come ogni anno, non sono mancate provocazioni e polemiche.
La celebrazione
Anche quest’anno i serbi di Bosnia non hanno mancato di far sfilare il loro orgoglio patriottico nelle celebrazioni per il 32° anniversario della proclamazione della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba in Bosnia Erzegovina.
Se l’anno scorso la festa si è svolta, provocatoriamente, a Sarajevo Est, quest’anno le celebrazioni tornano a Banja Luka, capoluogo amministrativo della Republika Srpska. Il programma della festa per il 2024 era particolarmente nutrito: oltre al ricevimento ufficiale e alla solita parata dei reparti di polizia e delle forze di sicurezza serbo-bosniache, era infatti prevista una seduta speciale del parlamento locale, un concerto e una rappresentazione teatrale ad opera del Teatro Aleksandriiski di San Pietroburgo, a dimostrazione dello stretto legame tra il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik e la Russia di Vladimir Putin – ribadito anche dalla presenza dei Night Wolves, la banda di bikers filo-putiniani.
In serata sono stati esplosi anche fuochi d’artificio sincronizzati tra la capitale serba Belgrado e le principali città dell’entità serba di Bosnia. Presenti alle celebrazioni le principali cariche istituzionali dell’entità, ma non solo: dalla Serbia infatti sono giunti il ministro della Difesa e il presidente del parlamento, mentre l’ambasciatore russo ha raggiunto la festa da Sarajevo. Non pervenuti invece, nonostante gli annunci, il presidente ungherese Viktor Orbán e i rappresentanti del governo montenegrino.
Dodik, la sera precedente alla ricorrenza, aveva già espresso i propri apprezzamenti verso i criminali di guerra serbi Ratko Mladić e Radovan Karadžić, ribadendo al contempo il suo strenuo negazionismo nei confronti del genocidio di Srebrenica del luglio 1995. Sulla stessa linea anche lo spettacolo pirotecnico eseguito dagli hooligan della Stella Rossa di Belgrado sul ponte Mehmed Paša Sokolović a Višegrad, in Bosnia orientale, teatro di esecuzioni di massa di bosniaci, invocando nel mentre il nome del generale Mladić.
Una data simbolica
Perché proprio il nove gennaio? La data non è casuale: era infatti il 9 gennaio 1992 quando i parlamentari serbi di Bosnia, contrari all’ipotesi di una Bosnia Erzegovina indipendente (poi confermata nel referendum del 1° marzo), proclamarono unilateralmente la “Repubblica serba di Bosnia”, un atto che avrebbe condotto in breve tempo la Bosnia Erzegovina verso un sanguinoso conflitto.
Oggi la Republika Srpska è posta sotto la guida dell’irremovibile secessionista Milorad Dodik, che da anni culla il sogno di vedere la sua entità parte della Serbia. In una intervista ad AFP rilasciata in occasione della ricorrenza, Dodik ha dichiarato che i serbi di Bosnia, “obbligati” per ora a restare in un paese che non considerano loro, sono “mentalmente integrati” alla Serbia e, per questo, appoggerebbero in pieno l’indipendenza della loro Republika Srpska.
Provocazioni e condanne
La Corte costituzionale bosniaca si è già espressa due volte sulle celebrazioni del 9 gennaio – giorno di Santo Stefano del calendario giuliano seguito dalla Chiesa Ortodossa Serba – dichiarando tale data incostituzionale in quanto discriminatoria verso gli altri popoli costituenti: i croati cattolici e i bosgnacchi musulmani.
Nonostante le minacce di azioni legali da parte dell’Alto rappresentante internazionale per la Bosnia Erzegovina, Christian Schmidt, la celebrazione ha avuto comunque luogo. In un braccio di ferro che va avanti da un paio d’anni, Dodik nega ogni legittimità a Schmidt e alle sue delibere, oltre che a quelle della Corte costituzionale.
Dodik prosegue sulla ormai nota strada – appoggiata da Belgrado – della retorica ultranazionalista, portando avanti al contempo il sogno per la secessione della sua Republika. Il presidente Dodik ha inoltre ribadito le minacce di secessione nel caso lo scontro con l’Alto rappresentante si dovesse accentuare, invitandolo a “non immischiarsi” nelle questioni che riguardano l’entità serba di Bosnia. Se così non fosse, il leader della Republika è pronto “a convocare il parlamento dell’entità e a procedere con l’indipendenza“, ritirando i serbi dalle forze armate, dalla polizia, dalle istituzioni comuni.
Lo scenario internazionale
Uno scenario che, finalmente, smuove la comunità internazionale nei confronti di Dodik, già sottoposto a sanzioni da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna, e che è sotto processo a Sarajevo per il suo rifiuto di rispettare le decisioni dell’Alto rappresentante (processo rimandato per ora al 17 gennaio).
Grazie alla recente vittoria del presidente serbo Aleksandar Vučić nelle elezioni in Serbia, Bruxelles sembra tirare un sospiro di sollievo. Eppure, Edina Bećirević, professore alla Facoltà di scienze politiche a Sarajevo, e l’analista politica Tanja Topić, si chiedono se Bruxelles abbia davvero paura di Milorad Dodik.
Ciclicamente, infatti, i timori che Dodik possa iniziare una guerra bussano alla porta dell’UE. Ma nell’attuale tensione geopolitica i paesi europei intervengono al minimo, pur di preservare la pace. Alcuni parlano di pace incompiuta, altri di conflitto congelato, mentre altri ancora ritengono, come recita l’antico detto, che “finché non si spara, tutto va bene”.
Foto: insajder