russi fuga

La guerra di Putin ai giovani russi, è un dovere accogliere chi fugge

Bloccare i russi che fuggono dalla mobilitazione è una violazione del diritto internazionale, ma l’Europa chiude i confini ai giovani in fuga

Da quando Vladimir Putin ha emanato l’ordine di mobilitazione militare, migliaia di giovani uomini si sono diretti verso i confini della Finlandia e dei paesi baltici, per chiedere asilo ed evitare la prima linea in Ucraina. Nelle scorse settimane i biglietti aerei hanno raggiunto rapidamente prezzi elevati, molti si sono quindi avventurati in auto e hanno cercato di attraversare il confine a piedi.

Russi respinti al confine georgiano

Il confine georgiano è affollato di persone che, abbandonato il proprio veicolo lungo la strada, a causa delle lunghe code, hanno proseguito con biciclette o mezzi di fortuna, in una disperata corsa contro il tempo per attraversare il confine prima che i soldati russi chiudessero la frontiera. Dall’altra parte, le autorità georgiane li respingono: “il governo georgiano lavora in stretta collaborazione con l’FSB russo” dicono da Tbilisi, lamentando di aver già lasciato entrare 53 mila persone solo durante la scorsa settimana.

In fuga verso Mongolia e Kazakhstan

Scene simili si sono viste al confine terrestre con la Mongolia, preso d’assalto dai giovani buriati, minoranza di origine mongola concentrata soprattutto nelle regioni siberiane, che furono tra i primi ad essere arruolati e mandati sul fronte ucraino (dove si sono resi protagonisti di eccidi come quello di Bucha) e che oggi rifiutano di essere carne da cannone per il Cremlino. In Kazakhstan il governo ha dichiarato che non rimanderà indietro i russi in fuga, e sarebbero già 98 mila le persone arrivate da quando Putin ha ordinato la mobilitazione.

La chiusura degli europei

La reazione dei paesi europei nei confronti di coloro che fuggono dal regime putiniano è fin qui stata di netta chiusura: “Il rifiuto di adempiere al proprio dovere civico in Russia non costituisce motivo sufficiente per ottenere l’asilo in un altro paese”, ha dichiarato la scorsa settimana a Reuters il ministro degli Esteri estone Urmas Reinsalu mentre il suo omologo lettone, Edgars Rinkevics, ha scritto su Twitter che “per motivi di sicurezza, la Lettonia non rilascerà visti umanitari o di altro tipo a quei cittadini russi che vogliono evitare la mobilitazione”. I lituani sono invece preoccupati dalla pressione che arriva dall’exclave di Kaliningrad: “non possiamo rilasciare visti per motivi umanitari a tutti i cittadini russi che ne facciano richiesta” ha affermato il ministro degli Interni.

L’Unione Europea è dello stesso parere: “La situazione è senza precedenti. Data l’attuale situazione dobbiamo tenere conto delle questioni geopolitiche e dei rischi per la sicurezza. Le disposizioni previste dagli accordi di Schengen consentono il respingimento sulla base di specifici motivi di ordine pubblico e sicurezza interna”. Così a Helsinki la polizia presidia gli aeroporti e i posti di confine mentre a Varsavia c’è chi afferma “che un afflusso di uomini russi rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza dei paesi europei, meglio sarebbe che coloro che si oppongono alla guerra facciano pressione su Putin dall’interno”.

La protesta impossibile dei giovani russi

Ma in Russia è vietato scendere in piazza, e chi lo fa sa che verrà arrestato, subirà un procedimento penale e un’incriminazione che potrà costargli il carcere o, nei migliori dei casi, una sanzione amministrativa, le cui conseguenze potranno essere molte, dal licenziamento all’espulsione dall’università. Ma non basta: con la mobilitazione in corso, chi viene arrestato in piazza riceve una convocazione presso il proprio distretto militare di riferimento, e finisce al fronte. Questo spiega il numero esiguo dei dimostranti che hanno fin qui manifestato contro Putin e la sua guerra. È senz’altro facile dire che i russi dovrebbero ribellarsi invece che fuggire, ma quanto avvenuto in Bielorussia, dove l’intero paese è sceso in strada contro il regime, finendo brutalmente represso, vale da monito. Anche per questo lo scorso 21 settembre a Mosca è sceso in strada appena lo 0,1% della popolazione.

Respingerli significa condannarli

Bloccare i russi che fuggono da queste chiamate militari è una violazione del diritto internazionale”, ha affermato Lamis Abdelaaty, professore alla Syracuse University, intervistato dal quotidiano americano Politico. “La punizione per i disertori e i renitenti alla leva in Russia è severa, essendo stata recentemente inasprita. Secondo il diritto internazionale, rischiare una punizione per essersi rifiutati di partecipare a combattimenti illegali è un motivo valido per ottenere lo status di rifugiato“, aggiungendo che i russi “non dovrebbero essere rimpatriati mentre le loro domande di asilo sono in fase di elaborazione”. Al di là delle questioni legali, accogliere i russi in fuga sarebbe la dimostrazione che l’Europa non è questo nemico che la propaganda russa descrive.

I russi non sono passivi

Il 24 febbraio scorso l’esercito russo invadeva il territorio ucraino, quella sera stessa mille persone si radunarono a San Pietroburgo, duemila a Mosca, centinaia a Novosibirsk, Perm, Ekaterinburg. Anche nei giorni successivi sono andate in scena manifestazioni. Alla fine, più di cinquemila persone sono state arrestate. Qualcuno le ha definite “proteste di piccola scala”, a conferma del sostegno popolare di cui ancora gode Vladimir Putin. Ma, lo abbiamo detto, protestare significa l’arresto, il processo, il carcere, il licenziamento. C’è molto da perdere e poco da guadagnare poiché raramente le manifestazioni hanno portato a un cambiamento concreto. A marzo il dissenso ha cominciato a esprimersi attraverso la contestazione artistica, in aprile era ridotta a espressioni individuali e relegata ai social-media. Ma il dissenso c’è. Certo, i russi sembrano essersi svegliati dopo lunghi mesi di indifferenza solo quando la guerra è diventata un orizzonte concreto nelle loro vite e il dissenso, più che verso la guerra, sembra essere verso la mobilitazione.

Samuel A. Greene in un articolo apparso su Post-Soviet Affairs, spiega come il Cremlino sia sempre riuscito a ricondurre il dissenso alla sfera privata, personale, alimentando divisioni sociali e impedendo la formazione di reti anti-governative organizzate. La fuga di questi giorni è, da un lato, una risposta individuale (fuggire per evitare il reclutamento salva solo sé stessi) ma, dall’altro, evidenzia un sentimento collettivo di rifiuto verso il potere. “Si sostiene che i russi siano passivi perché culturalmente adattati all’autoritarismo, oppure perché inconsapevoli di quanto accade loro intorno” spiega ancora Greene “al contrario i russi hanno sperimentato negli anni una miriade di modi per opporsi alle politiche del governo”, costringendolo spesso a fare marcia indietro “sulle riforme in materia di educazione, politiche abitative e leggi regionali”.

Una guerra ai giovani

Il Cremlino sta conducendo una guerra contro i propri giovani, obbligandoli ad andare al fronte a combattere una guerra mal gestita, con il rischio di essere solo carne da cannone; arrestandoli, se protestano; cacciandoli dalle università, se esprimono dissenso. Le rivolte accadono perché i regimi le provocano: se il Cremlino deciderà di inasprire le misure punitive per coloro che cercano di sottrarsi al reclutamento, se l’impatto della leva sui cittadini diventerà più concertato e coerente, allora è possibile che la resistenza al regime si faccia più organizzata e profonda. Il regime ha aperto le danze, la società ha risposto. Quello che succederà adesso dipende da Putin.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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