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UCRAINA: La religione dietro la guerra

Le cause dell’aggressione russa all’Ucraina sono perlopiù di natura politica – la necessità di sottomettere un paese necessario ai disegni di potenza del Cremlino – e motivate da ragioni di sicurezza. Tuttavia non mancano motivazioni linguistiche e culturali, come l’ipotetica identità tra russi e ucraini, a cui si aggiungono anche questioni religiose. E su queste ultime, in apparenza secondarie, vale la pena soffermarsi.

L’Ucraina è un paese dominato da tre denominazioni cristiane che si dividono la maggior parte dei fedeli: la Chiesa greco-cattolica (9,4%), la Chiesa ortodossa russa (12,8%) e la Chiesa ortodossa ucraina (67,3%)  a queste si affiancano la minoranza protestante (2,2%), cattolica romana (0,8%), ebraica (0,4%) e presenze musulmane e buddiste. La natura multiconfessionale dell’Ucraina – insieme alla sua varietà linguistica – è una delle ragioni per cui nel paese non ha mai attecchito un nazionalismo etnico, divisivo e discriminatorio. Ci sono infatti russofoni che si definiscono di nazionalità ucraina, e persone di lingua e tradizione ucraina fedeli al patriarcato di Mosca. Un intreccio che ha impedito lo sviluppo di uno stato-nazione sul modello occidentale. In ogni caso, qualche problema c’è.

Il nodo del contendere sta nella presenza di due chiese ortodosse, l’una russa, l’altra ucraina. A cosa si deve questa particolare situazione? Facciamo qualche passo indietro per poi guardare più da vicino la situazione ucraina.

Chiesa ortodossa e chiese ortodosse

Com’è noto, non si può parlare di “Chiesa ortodossa” (al singolare) se non in modo improprio, al solo fine di identificare l’insieme delle chiese che condividono la stessa dottrina e la stessa liturgia bizantina. Benché parte di uno stesso organismo, le chiese ortodosse si caratterizzano per una suddivisione nazionale e si distinguono tra autocefale e autonome. Le prime sono del tutto indipendenti, esprimono come guida un proprio patriarca, e non riconoscono altra autorità al di sopra di esso. Le seconde dipendono invece dalla prime, pur mantenendo ampie autonomie. Da tempo, però, le quattordici chiese che compongono il mosaico ortodosso si trovano in bilico tra la ricerca di unità e la volontà di conservare la propria indipendenza.

La lotta per il potere

La ricerca di unità è un obiettivo ambizioso che passa, giocoforza, dall’individuazione di un leader. La Chiesa ortodossa russa, guidata dal patriarca Kirill, è la maggiore per numero di fedeli e da tempo contende il primato a Costantinopoli, sede del patriarca ecumenico, oggi Bartolomeo I, primus inter pares, con un ruolo preminente rispetto all’intero mondo ortodosso. Un’importanza che si deve a ragioni storiche – è la “chiesa madre”, architrave del potere imperiale romano e bizantino, da cui tutto il mondo ortodosso discende – ma che non è supportata dai numeri. Quello di Costantinopoli è un patriarcato declinante: appena tremila fedeli, tenuto in vita dalle settantadue diocesi della diaspora, in gran parte negli Stati Uniti. A contenderle il primato simbolico c’è il patriarcato di Mosca che, invece, si propone come braccio spirituale di un nuovo impero, non più quello romano, ma quello russo, espressione della “terza Roma”, velleitaria erede di Bisanzio.

L’autocefalia ucraina

L’autocefalia non si conquista, si ottiene. A concederla è un sinodo di vescovi presieduto dal patriarca di Costantinopoli ed è così che, l’undici ottobre 2018, la chiesa ortodossa ucraina – fino a quel momento soggetta al patriarcato di Mosca – ha ottenuto l’autocefalia. La conseguenza è stata che il patriarca di Mosca, Kirill, ha minacciato quello di Costantinopoli, Bartolomeo, di mettere in atto uno scisma rompendo ogni rapporto tra le due chiese. Una pietra tombale sulla ricerca di unità che anzi segnò l’avvio di una guerra intestina che ancora sconvolge il mondo ortodosso poiché non mancano alleanze religiose su cui si innestano relazioni politiche: il patriarca bielorusso, quello serbo, ma anche quello siriaco sono da sempre vicini a quello russo.

L’autocefalia ucraina è però un atto politico. Fortemente voluta dall’allora presidente Poroshenko, sanciva anche sul piano confessionale la rottura tra Kiev e Mosca, all’indomani dell’invasione di Crimea e Donbass. “Questa è la caduta della Terza Roma, l’antichissima formula utilizzata per definire Mosca e il suo dominio sul mondo” dichiarò enfaticamente Poroshenko. L’ultimo cordone ombelicale con Mosca era strappato, il percorso di affrancamento ed emancipazione da Mosca giungeva alle sue estreme conseguenze. A questo punto solo la guerra, e la relativa “de-ucrainizzazione” minacciata dai manutengoli del regime russo, poteva invertire la rotta.

Russia, l’alleanza tra trono e altare

Il potere della Chiesa in Russia è cresciuto enormemente negli ultimi anni e ciò si deve, in larga misura, all’operato di Vladimir Putin, attento a fare del patriarcato il braccio spirituale del Cremlino. Non si tratta però di un’alleanza tra uguali. La tutela del Cremlino sul patriarcato si può riassumere in quello che, a prima vista, può apparire un semplice atto simbolico, ovvero lo spostamento – nel 2011 – della residenza del patriarca proprio all’interno del Cremlino, sede del potere politico.

Una tutela che, tuttavia, conviene a tutti per molte ragioni. Anzitutto, grazie alla protezione dello stato, il numero di russi che si dichiarano credenti è passato dal 31% degli anni Novanta al 73% nel 2014. In secondo luogo, la Chiesa ortodossa russa è tornata in possesso di tutte le proprietà confiscate dai bolscevichi. Infine, grazie ad alcuni speciali “privilegi”, che includevano l’importazione di tabacco e alcolici esentasse, il patriarcato ha potuto mettere insieme un discreto gruzzolo di rubli, pari a quattro miliardi di dollari secondo il Moscow Times. Così il rapporto tra Chiesa e stato è cresciuto nel nome di quella che Kirill chiama “symphonia”, termine che in epoca giustinianea descriveva la comunanza armonica del potere spirituale con quello secolare.

La Chiesa e il “mondo russo”

Il Cremlino ha sapientemente usato la religione come strumento di coesione sociale, inserendola in quel complesso processo di (ri)costruzione di un’identità pan-russa culminato nel russkij mir, vera impalcatura ideologica dello stato emerso dalle ceneri sovietiche. Uno stato che, non potendo più attingere all’ideologia comunista, necessitava di reinventarsi ritagliando per sé un destino, una missione, nei confronti del mondo. L’esito fu appunto il russkij mir, “mondo russo”, dottrina elaborata a partire dalla metà degli anni Novanta, e perfezionata nell’ultima decade, secondo cui la nuova Russia deve porsi come alternativa al modello occidentale, quale diversa forma di “civilizzazione”, inserendosi in un ordine mondiale che Mosca vuole multipolare. La dottrina del “mondo russo” assume in sé caratteri propri dell’imperialismo, dell’antioccidentalismo e del conservatorismo religioso. La Chiesa ortodossa russa ne è un elemento fondamentale poiché, mentre da un lato garantisce unità interna al paese, dall’altro diventa strumento di politica estera.

“Putin difensore dell’occidente”

Il più grande successo diplomatico ottenuto dal Cremlino attraverso il patriarcato è stata la rottura dell’isolamento diplomatico seguito all’annessione della Crimea. Un intreccio di relazioni tra Kirill, Papa Bergoglio e Putin, portò infine il presidente russo a farsi carico dell’appello del Papa per “la pace in Siria” intervenendo direttamente nel conflitto a fianco di Assad. Era il settembre 2015. In quell’occasione Kirill definì Putin “l’ultimo difensore dell’Occidente”. Anche grazie all’intercessione vaticana, la Russia poté uscire dall’angolo. Nel 2016 Bergoglio e Kirill si incontrarono all’Havana dove firmarono una dichiarazione congiunta in cui, rimarcando i valori tradizionali della Chiesa, si sosteneva e supportava l’intervento russo in Siria e in Ucraina. Non solo, la chiesa ucraina veniva invitata a superare le divergenze e riappacificarsi con Mosca. Una chiara presa di posizione da parte del Vaticano.

La chiesa greco-cattolica

In Ucraina esiste un’altra importante confessione cristiana, quello greco-cattolica nota anche come “uniate“. Sorta nel 1595 a seguito dell’Unione di Brest, quando le diocesi ortodosse ucraine del Granducato polacco-lituano interruppero le relazioni con il patriarcato di Mosca entrando in comunione con il Papa di Roma, essa “unisce” il rito ortodosso alla dottrina cattolica. Si tratta di una chiesa molto seguita nell’ovest del paese – ovvero nelle aree che furono del Granducato – ma del tutto assente nelle regioni orientali.

Nel 2019, esattamente un anno dopo l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina, Papa Bergoglio incontrò i rappresentanti della Chiesa uniate e in quell’occasione si abbandonò a critiche verso la Chiesa ortodossa russa invitando l’Occidente a dare maggiore aiuto a Kiev. Da quel momento la posizione del Vaticano è sempre stata di sostegno all’Ucraina. Nell’ottobre 2021, Papa Bergoglio ha inviato un videomessaggio a Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, congratulandosi per i trent’anni di apostolato. Nel farlo ha ribadito “i forti rapporti personali” e “la fraterna amicizia” che li lega. I rapporti del Vaticano con il mondo ortodosso quindi continuano, ma hanno cambiato interlocutore. 

L’ebraismo tiepido

Anche il presidente ucraino Zelens’kij, di origine ebraica, ha cercato di far leva sull’appartenenza etno-confessionale per ottenere il sostegno del governo israeliano che si è però mostrato tiepido verso le richieste di Kiev, sia perché circa il 15% della popolazione israeliana è di origine russa, sia per l’importanza che la cooperazione militare con Mosca riveste nella regione. Oligarchi ucraini di origine ebraica, come Vadim Rabinovich o Igor Kolomoysky, siedono su fronti opposti: se il primo è fuggito in Russia, il secondo – già finanziatore di Zelens’kij – è rimasto in Ucraina per sostenere economicamente lo sforzo bellico.

Sanzioni a Kirill, anzi no

A causa del suo aperto sostegno all’invasione dell’Ucraina, anche il patriarca di Mosca, Kirill, era entrato nella lista delle personalità russe che l’Unione Europea voleva sanzionare. A impedirlo è stato il governo ungherese, guidato da Victor Orban, che si è appellato alla libertà religiosa. L’Ungheria è un paese cattolico anche se è il meno religioso della regione. Victor Orban ha però saputo usare la religione come puntello ideologico per il proprio regime, affermando di voler difendere l’Europa dalla minaccia islamica rappresentata dai profughi in arrivo lungo la rotta balcanica. Può sorprendere che un paese che si vuole campione della cattolicità si schieri a difesa del patriarca russo, ma l’amicizia con il Cremlino vale più di una messa.

Religione strumento di potere

La religione continua a essere strumento di potere, a Budapest, Kiev e Mosca. I leader religiosi perseguono propri obiettivi, a volte intrecciandoli con quelli della politica, a volte approfittando della situazione. Questo intrico di interessi non è una causa diretta del conflitto in Ucraina, ma le questioni religiose hanno fatto da sfondo alla guerra, hanno contribuito a prepararla e – in certa misura – a tutt’oggi l’alimentano.

foto da pxhere

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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