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CINEMA: Musica e libertà nella Romania di Ceausescu, intervista al regista Belc

Il film del regista rumeno Alexandru Belc presentato a Cannes si intitola Metronom, come il programma radiofonico di Radio Europa Libera dedicato alla musica occidentale: una delle fonti principali che negli anni ’70 i giovani rumeni avevano per avvicinare la vita d’Oltrecortina

Metronom, la pellicola di Alexandru Belc, presentata a Cannes nella sezione Un Certain Regard, è un film che si sofferma sulla maturazione di Ana, che avviene durante una festa tra giovani che ballano ascoltando appunto Metronom, il programma radiofonica che nell’Europa dell’Est permetteva di ascoltare la musica occidentale. Ne abbiamo parlato con il regista, che in passato ha presentato il suo documentario Cinema Mon Amour al Trieste Film Festival nel 2015. Metronom è il suo debutto nel lungometraggio di finzione.

C’è stata una fase della preparazione in cui Metronom aveva un soggetto radicalmente diverso?
«All’inizio volevo fare un documentario sul programma radiofonico e sulla figura di Cornel Kirlian, era un personaggio iconico non solo per gli ascoltatori rumeni ma anche quelli polacchi, ungheresi, anche se non comprendevano la lingua ascoltavano per la musica perché lui trasmetteva canzoni nuove, faceva recensioni. Durante le ricerche ho letto molti dossier della Securitate, ed ho scoperto molte storie interessanti sulle persone che ascoltavano il programma. Ho parlato con molti di loro e mi sono deciso di fare un film su questa generazione, e la forma doveva essere di finzione, perché questa poteva mostrare meglio la storia della generazione rispetto a un documentario».

La trama del film si basa alcune storie vere quindi?
«In realtà non molto. Si tratta della generazione dei miei genitori, ma non della loro storia. Mi hanno aiutato a sviluppare i personaggi. Mia madre mi ha dato molti dettagli sulla vita delle ragazze negli anni ’70 e l’ho sfruttata come se facessi ricerca per un documentario. Anche i miei genitori ascoltavano  il programma ma sono riusciti a mantenerne il segreto, e non hanno avuto una storia come quella rappresentata nel film».

Il personaggio principale non è proprio dei più militanti, eppure la sua resistenza è centrale nella seconda parte del film.
«Ho parlato molto con l’attrice Mara Bugarin riguardo alle emozioni e a come costruire il suo personaggio, e ad un certo punto mi sono sentito identificato con il personaggio anch’io, per cui ho provato una crescita personale e la protagonista è diventata un personaggio a prescindere dal suo genere, nella quale potevo metter tutto me stesso».

Si tratta anche del primo ruolo di Mara Bugarin. Come l’ha trovata?
«Ho iniziato a fare il film con un’altra attrice in mente, ma poi ho scoperto Mara durante un casting per un altro progetto. Le ho fatto fare un provino sul set a una settimana dall’inizio delle riprese. Visto che mi è piaciuta ho anche cambiato il personaggio maschile, Serban Lazarovici, che ha fatto l’audizione per un altro ruolo, ma tra loro ho visto una sintonia perfetta. Ho scoperto Lazarovici per il suo ruolo di protagonista nel film di Radu Jude, Uppercase Print, ed il suo ruolo originario doveva essere declamatorio e più affine a quello che aveva in Jude».

Un altro attore di supporto è Vlad Ivanov, che qui si ripropone in un ruolo simile a quello dei suoi passati ma con qualcosa di nuovo.
«La parte con Vlad era quella in cui il testo è cambiato di meno. Quando ho definito il suo personaggio, sentivo la sua voce mentre scrivevo le battute. Quando gli ho chiesto se poteva accettare il ruolo mi ha detto che avrebbe fatto un personaggio diverso dai suoi soliti. Durante le riprese ha dato vari input per rendere il suo personaggio ancora più aggressivo verbalmente e più duro, essendo un agente della Securitate. Penso che sia l’unico attore rumeno in grado di fare questo tipo di ruoli».

Ha menzionato che la sceneggiatura è cambiata poco nelle scene di Vlad, mentre nel resto del film?
«La sceneggiatura cambiava molto, la scrivevo di mattina sul set o la notte prima e poi davo agli attori il testo durante le riprese. Avevano letto un trattamento e sapevano già in linea generale la storia, ma ogni scena è stata scritta sul set. Questo metodo era difficile per la troupe perché anch’essi scoprivano ogni giorno la mattina cosa sarebbe successo».

Perché?
«Volevo rendere il film più reale e fresco e conoscendo meglio gli attori pensavo che il testo sarebbe migliorato se lo avessi adattato sul momento a loro. Si è trattato di tre settimane di riprese e conoscendoli sempre meglio penso di aver reso il testo più appropriato».

Il film parla di libertà e resistenza, e chiaramente sembra risuonare con il presente. Era un’intenzione chiara per te?
«Sì, volevo fare un film sull’idea di libertà e di compromesso con la figura del “padrone” ma al contempo avevo paura di questa tematica perché non volevo fare l’ennesimo film sul comunismo, e nel cercare di discostarmi mi sono focalizzato sulla storia dei personaggi, il loro conflitto, la loro energia, con certo il comunismo nello sfondo. Ma per esempio, ho cercato di evitare di mettere la figura di Ceausescu nel film».

In alcune scene chiave compare una delle piazze monumentali di Bucarest, che varia nella sua apparizione: c’era un significato dietro a questo cambiamento?
«Volevo fin dall’inizio mostrare come i personaggi si ritrovano in posti simili ma siano ignari del cambiamento radicale che hanno subito. Ho scelto la piazza perché ritengo che sia simbolica per l’epoca e volevo mostrare il comunismo che si mostra nelle piccole cose. Si tratta del loro posto di ritrovo ed al contempo un simbolo dell’epoca».

Si sente parte della cosiddetta “Nuova onda” rumena?
«Non lo so. Non ho visto film di registi rumeni negli ultimi 2 o 3 anni, ero focalizzato sul documentario. Non sento di farne parte o che il mio film ne faccia parte perché pur avendo inquadrature lunghe, la cinepresa nella mia pellicola è più viva, si sposta tra i personaggi, con coreografie elaborate. Di solito, nei film rumeni l’inquadratura è fissa, forse solo un po’ tremolante».

Ha iniziato la sua carriera lavorando a 4 mesi 3 settimane 2 giorni di Cristian Mungiu, ed è stato assistente alla regia di Corneliu Porumboiu. In che modo queste esperienze l’hanno influenzata?
«Quando ho lavorato con loro sentivo di aver appreso molto, era come una seconda università, ma col tempo ho avuto la sensazione che avrei dovuto trovare la mia voce. Forse è per questo che ho scelto il documentario, perché mi sentivo più libero: Con Cinema, Mon Amour, ho girato 300 ore di materiale e potevo costruire la storia in sala di montaggio».

In futuro, pensa di tornare al documentario o alla finzione?
«Credo che la forma debba essere conforme all’idea. Se trovo una buona idea per un lungometraggio di finzione, faccio un film. Altrimenti, se l’idea si presta meglio a un documentario, faccio un documentario. Finora ho fatto opere incentrate sul passato, ma ora mi sento provocato a fare qualcosa di contemporaneo».

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Immagine: Da sinistra Vlad Ivanov, Mara Bugarin, Alexandru Belc, Mara Vicol e Serban Lazarovici a Cannes (foto dall’account Instagram metronomfilmul)

Chi è Viktor Toth

Cinefilo focalizzato in particolare sul cinema dell'est, di cui scrive per East Journal, prima testata a cui collabora, aspirante regista. Recentemente laureato in Lingue e Letterature Straniere all'Università di Trieste, ha inoltre curato le riprese ed il montaggio per alcuni servizi dal confine ungherese-ucraino per il Telefriuli ed il TG Regionale RAI del Friuli-Venezia Giulia.

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