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BALCANI: Mine in Croazia e Bosnia, la guerra infinita

Morire dilaniato a migliaia di chilometri da casa. Farlo mettendo il piede su una mina che qualcuno, dall’altra parte del mondo, ha collocato lì, esattamente lì, trent’anni prima. Quando con ogni probabilità nemmeno eri nato, durante una guerra di cui a buon diritto non sai nulla, perché non è la tua guerra e comunque non è la stessa guerra da cui, magari, stai scappando.

È questa la drammatica fatalità toccata in sorte a un migrante, il 4 marzo scorso, in un bosco in territorio croato nel comune di Saborsko, al confine nord-occidentale con la Bosnia Erzegovina. Con lui altre quattro persone sono rimaste ferite, una è in pericolo di vita. Parte del gruppo è stata messa in salvo grazie all’intervento degli sminatori croati che hanno creato un corridoio sicuro; altre persone sono fuggite, chissà dove, chissà con quali rischi.

Mine: un problema irrisolto

Un’area, quella teatro della tragedia, dove negli anni dei conflitti che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia gli scontri sono stati violentissimi e che è oggi un campo minato. Uno dei tanti: ancora adesso, infatti, sono migliaia i chilometri quadrati di territorio infestati da questi ordigni.

In Croazia l’obiettivo di liberare l’intero territorio dalle mine entro il 2019 non è ancora stato raggiunto, anche a causa dei costi legati alle operazioni di sminamento – si calcola che l’intera impresa costerà alla fine almeno 500 milioni di euro. Il traguardo è stato dunque posposto al 2026 e sarà in parte finanziato dall’Unione europea. Nonostante il Centro croato per lo sminamento (Croatian Mine Action Center, CROMAC) disinneschi ogni anno migliaia di questi ordigni, si stima che siano almeno 20 mila quelli tuttora disseminati in diverse aree, su una superficie complessiva di quasi 400 chilometri quadrati, tanto quanto l’intera provincia di Milano. Benché non si registrassero incidenti mortali dal 2017, il CROMAC valuta che, dalla fine della guerra ad oggi, almeno 200 persone abbiano perso la vita a causa di questi dispositivi e che siano centinaia, addirittura migliaia, quelle rimaste ferite.

La situazione è persino peggiore in Bosnia Erzegovina: il 9 febbraio scorso, i ritardi accumulati nelle operazioni hanno portato il BHMAC (Bosnia and Herzegovina Mine Action Center) – l’ente che si occupa del problema in Bosnia – a chiedere un’estensione per la fine delle attività da marzo di quest’anno a settembre del prossimo. A ben vedere, stante l’attuale situazione, anche la nuova deadline appare piuttosto ambiziosa, se non addirittura del tutto irrealistica: sono ancora quasi mille i chilometri quadrati da bonificare, il 2% dell’intero territorio nazionale (cinque volte l’area sanata finora), 80 mila le cariche sparpagliate in centinaia di località, mezzo milione le persone coinvolte, numeri impressionanti.

Tutto lascia presagire che, senza un cambio di passo, si andrà avanti ancora per un bel pezzo e che, malgrado siano ben diciassette le organizzazioni accreditate per lo svolgimento delle operazioni, l’obiettivo finale sia ben lungi dall’essere raggiunto. Una situazione impietosamente radiografata dalla conta delle vittime: oltre 600 morti dalla fine della guerra, 53 dei quali relativi a personale addetto allo sminamento; il doppio le persone rimaste ferite. L’unica nota positiva riguarda il fatto che lo scorso anno non si sono registrati incidenti (probabilmente anche in ragione di una minore attività) e che gli ultimi morti, due sminatori, risalgono al 2019.

Le responsabilità

Al di là del quadro appena descritto, l’episodio del 4 marzo scorso pone ancora una volta l’accento, semmai ce ne fosse bisogno, sul dramma dei migranti che da anni si avventurano lungo la rotta balcanica partendo dall’Asia meridionale, dal Medio Oriente, dall’Africa, mettendo a rischio la propria vita e subendo violenze e vessazioni di ogni tipo, come quelle più volte denunciate a carico della polizia di frontiera croata. E quella, altrettanto drammatica, dei campi profughi in cui queste persone vengono ammassate in condizioni disumane, specie nel periodo invernale.

Il giovane rimasto ucciso al limitare di Croazia e Bosnia non è un morto delle guerre jugoslave: sarebbe erroneamente autoassolutorio annoverare questa vita all’elenco, lunghissimo, delle vittime di quel conflitto. Non è stato colui che ha posizionato quell’ordigno, avendo cura che si mimetizzasse bene sotto qualche centimetro di terra, ad aver ucciso quell’uomo. Di più: non lo sono state nemmeno le ragioni, qualunque siano, che lo hanno portato fin lì, in quel bosco. O, comunque, non solo. Le mine sono lì da decenni e probabilmente lo saranno per molto tempo ancora: starebbe a noi il compito di impedire che qualcuno sia posto nelle condizioni di metterci il piede sopra. Responsabile è la nostra inazione, l’egoismo delle nostre società: Alexander Langer, di cui proprio pochi giorni fa scrivevamo su queste pagine, avrebbe aggiunto, la nostra miopia.

Foto: Geraldsimon00/Pixabay.com

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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